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Abilità del dis-: qualche riflessione sulle possibilità della dis-abilità
Orsola Rignani

09.02.2025

 

Attraverso la messa a tema del significato del termine disabile, con la sua struttura composita di preposizione/prefisso (dis-) e di aggettivo (abile, dal latino habere) convergenti nell’esprimere possibilità, si possono valorizzare prospettive di riconfigurazione non antropocentrica, non umanistica, non abilista, non binarista, contaminativa, e ibridativa dell’umano, innescate e catalizzate dal (corpo) dis-abile.

 

In dis-abile, il campo di significati di dis- (separazione, negazione, carenza, patologia ecc.) è appunto combinato con abile, da habere, che esprime capacità e possibilità (anche attiva). Se si concentra l’attenzione sul prefisso allo scopo di sondarne la portata euristica, ci si trova a potere contare su una singolare cassetta di attrezzi teorici come la cosiddetta filosofia delle preposizioni (ma anche, potremmo dire, dei suffissi e dei prefissi) di Michel Serres. Un “congegno” che, giocandosi sugli aggettivi (“gettati a fianco del nome”), sugli avverbi (“piazzati accanto al verbo”) e sulle preposizioni (“poste prima”), arriva a declinare i nomi, coniugare i verbi, introdurre preposizioni nelle frasi, calando i concetti in avvenimenti o in circostanze. (Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, Bollati Boringhieri, Torino 2015, pp.195-99)

 

Poste prima”, le preposizioni fungono quindi da collegamento dinamico e inventivo tra elementi di uno spazio multidimensionale, (ri)aprendo faglie di possibilità, gettando ponti, (ri)creando intrecci e combinazioni e fluidificando confini. Il ché fa sì che, in dis-abile, la valenza negativa e patologica del dis- finisca per essere “neutralizzata” e/o riassorbita nella dimensione del possibile e del nuovo, a sua volta reagente con la capacità e la possibilità attiva veicolate da abile, con il risultato complessivo dell’espressione di una metastabilità.

 

A declinare il valore aggiunto di quest’ultima è del resto lo stesso Serres, che ne Il mancino zoppo (cit., p. 104) manifesta la sua predilezione per le rotture di simmetria quali origini di novità, di contro all’equilibrio, stabile, sterile e ripetitivo.

 

L’idea, in sostanza, è quella di una tensione dinamica, creativa e inventiva, tra equilibrio e scarto, il cui valore sta proprio nel non attestarsi mai né sull’uno né sull’altro. Nel loro scivolare l’uno sull’altro essi esprimono quello che Serres chiama il mancinismo di zoppia o la zoppia mancina, cioè una realtà non informata né dall’alternativa né dal binarismo.

 

Mancinismo zoppicante e zoppia mancina significano infatti nell’ottica serresiana fluidità, indefinizione, terzietà inclusa, e perciò disattivazione di essenzialismi, di binarismi, di centrismi e (ri)attivazione della dimensione del possibile.

 

Il che, sul piano antropologico, significa lo smarcamento da una concezione antropocentrica, essenzialista, abilista e dualista dell’umano alla volta di una (ri)scoperta della sua “natura” potenziale, fluida, transizionale, composita, relazionale e decentrata.

 

Questa prospettiva, nell’intercettare, pur senza un intento dichiarato, quella del postumanesimo, dei (Posthuman) Disability Studies, dei Dishuman Studies, degli studi postcoloniali etc, si coagula in istanze per così dire di decoincidenza, di disidentificazione e di denormalizzazione dell’umano, che aprono a proposte di nuove forme di soggettività di tipo reticolare, relazionale, ibrido e contaminativo, e addirittura additano il ripensamento e la discussione del significato e della distinzione di soggetto e di oggetto.

 

È in un tale controluce, quindi, che la dis-abilità perde la tinta fosca di cui è stata umanisticamente rivestita e (ri)acquista quella che Serres direbbe l’incandescenza, cioè l’incoatività, la progressività verso il bianco, quel non colore che è condizione e origine di tutti i colori. La reazione tra la potenza preposizionale/preposizione potenziale del dis- e la possibilità attiva di abilità va a produrre infatti un corno di abbondanza, una dimensione dinamica per così dire di toti-potenzialità, che è appunto non appartenenza, indefinizione, disponibilità alla trasformazione e disidentificazione.

 

Mettendo in atto un’operazione caleidoscopica di ripensamento, di relativizzazione e di decodificazione del binomio normalità/anormalità, abilità/dis-abilità, Serres suggerisce quindi la considerazione della dis-abilità come condizione e innesco di un processo di completamento.

 

Il dis-abile, mancino zoppo, è infatti una sorta di chiasmo, una x bianca, trasparente, un incrocio, un’intersezione, una miscela, un fluire “da una parte” e “dall’altra”, una tara, intesa come peso supplementare all’esterno del proprio punto di equilibrio che produce uno scarto all’equilibrio, una deviazione inventiva e produttiva rispetto alla ripetitività della linea retta.

 

Le istanze serresiane, postumaniste, i (Posthuman) Disabilty Studies, i Dishuman Studies, gli studi femministi, postcoloniali ecc. pertanto convergono, in sostanza, sull’idea che la dis-abilità vada concepita, non in termini di una essenza, ma di una modalità, di un serbatoio di possibilità, di una fluidità e di una indefinizione, la quale, come tale appunto, innesca e catalizza la sfida alla riformulazione della nozione umanista di uomo, in una dimensione potenziale, oscillante, ruscellante, modale, ossia dis-abile.

 

Ne risulta quindi che la dis-abilità, nel riattivare la dimensione dei modi, costituisce per così dire l’epifania di un reale come tensione dinamica tra equilibrio e scarto, nella quale, secondo un’ontologia del possibile e delle relazioni, ciò a cui si tende è contemporaneamente ciò che si abbandona, e viceversa. In una prospettiva di terzietà, di invenzione continua di equilibri instabili e rari, di sintesi generativa che non annulla il particolare ma lo completa, di riconoscimento del fatto che è sempre più urgente mettere in atto una prassi di composizione del “noi” come “quel popolo che manca e può esistere solo grazie alle alleanze, alle connessioni trasversali e al comune impegno nel tessere conversazioni anche scomode su ciò che più ci preoccupa” (Rosi Braidotti, Il postumano. Saperi e soggettività, Bologna, DeriveApprodi 2022, p. 27).

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