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Cos’è, dunque, la critica?
Andrea Lucchini

 

08.12.2024

 

Che cos’è la critica? Ancora una volta, questa domanda. Nei decenni si sono accumulate le risposte (talvolta senza nemmeno che la questione dovesse esser posta esplicitamente) e viene spontaneo chiedersi a questo punto se resti qualcosa da dire in merito, ed eventualmente se, addirittura, ne valga la pena. Ma forse conviene incominciare dalla fine: non tanto da cosa sia la critica in principio, ma piuttosto da che cosa si torvi ad essere in conclusione, almeno rispetto al nostro presente. Il fatto è che oggi, più che non sapere nemmeno dove incominciare a cercare la risposta, lo spettacolo che ci troviamo a guardare in live e anestetizzati è piuttosto la lenta dissolvenza della domanda stessa, che sembra ora scontata, ora semplicemente un adagio demodé, un che di documentaristico. E se i meccanismi di organizzazione ed esercizio del dominio assumono forme sempre più sfuggenti e caleidoscopiche, troppo sottili per concedersi a una descrizione unitaria, sotto il segno dello spettacolo (Debord), della disciplina (Foucault), del controllo (Deleuze), del simulacro (Baudrillard), della stanchezza (Han), della sorveglianza (Zuboff), del gaming (Hon) – e si potrebbe andare avanti ancora a lungo –, accade attualmente qualcosa di più specifico del semplice gioco libero del potere che, per quanto multiforme, infondo non ha storia né epoche o regioni privilegiate. Non solo, ma, di più, tale specificità riguarda per certi versi proprio la critica e il suo statuto: il punto in cui, piegandosi, viene messa in contato con la propria estremità. Se, infatti, la critica si riferisce sempre a un contesto materiale che la precede e la determina – cosa che di primo acchito l’appiattirebbe su di una pratica superfluamente riflessiva e intellettualistica – tale contesto è cionondimeno da essa costantemente ridefinito, rendendola per questo una posta in gioco politica.

 

Che cos’è, quindi, la critica? A lungo si è risposto – e ancora oggi scontiamo gli esisti di questa risposta – che essa consiste sostanzialmente nel mostrare le cose per quello che sono realmente. Il pensiero critico si incarna così, attraverso tutte le sue gradazioni espressive – nella filosofia, come nella sociologia, nel giornalismo o nella trap –, in un gesto descrittivo che lacera il sipario ed esibisce i nervi irrorati di sangue della bestia sociale, la sua vita tendinea, brutale. Ma, la domanda è così tutto sommato fatta arretrare unicamente di un passo, e diviene: che cos’è, allora, reale? Non è proprio nelle società iperindustrializzate occidentali, dove il cinismo della noncuranza naif è il vademecum del senso comune, e l’unica religione, come aveva già inteso Benjamin (W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il melangolo, Genova, 2013, pp. 40-51), è quella della materia e del suo prezzo, dove la violenza non è che una delle monete di scambio favorite dal sistema multimiliardario dell’intrattenimento e la rivolta, come diceva Foster Wallace, è ormai solo un prodotto sexy (da serie Netflix, potremmo aggiungere), non è forse proprio in queste società che la “realtà, così com’è” è divenuta la panoplia dietro la quale il capitalismo postfordista si è innervato nella forma del lavoro flessibile quanto precariale, smart quanto inesorabile, della fine dei sogni smodati di un’emancipazione sociale e della fagocitazione consumistica di qualsiasi orizzonte espressivo, culturale, politico o economico?

 

Con coscienza storica, si può certamente riconoscere la legittimità degli innumerevoli tentativi che hanno mirato nel Novecento a un rischiaramento ruvido della coscienza comune attraverso l’esibizione della putrescenza nelle cose, a maggior ragione in riferimento a contesti materiali diversi dall’Occidente industrializzato, com’è nel caso di artisti quali Rocha o pensatori come Fanon. Ma da qualche decennio a questa parte, un tale atteggiamento sembra limitarsi a sostare sulle cose, ben più che andare dietro di esse: dall’apertura di spazi attraverso la decostruzione, si è passati alla semplice descrizione disinteressata alle alternative. Come se i consumatori di carne non avessero la minima idea di ciò che accade nei mattatoi industriali o i dipendenti medi d’azienda non vedessero che i propri dirigenti percepiscono stipendi ingiustificabilmente più alti dei loro. Chi non conosce le condizioni di lavoro dei riders, dei magazzinieri o dei corrieri Amazon? L’economia dei meccanismi di potere, per dirla con Foucault, si è ristrutturata, in qualche modo incorporando la tendenza stessa ad analizzare i sistemi di potere.

 

Così questa presunta critica, feticista dell’evidenza cruda, che si concretizza massimamente, come ha mostrato Jameson (F. Jameson, Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989)), nel clima generalmente postmoderno che diviene dominante negli ambienti culturali europei e americani dagli anni Ottanta in poi, finisce essa stessa per rilanciare il sistema del cui smascheramento si farebbe tanto bella, compiaciuta di aver ricordato con la sua tipica ironia sardonica e distaccata che al mondo esistono violenza e sopraffazione. Insomma, più che una seria presa di distanza dallo status quo, questo nichilismo vanesio ne costituisce un sovrappiù, diventando un suo doppio spaesato.

 

Mark Fisher, come noto, ha definito questo fenomeno complessivo e omnicomprensivo “realismo capitalista”: “la percezione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un’alternativa coerente” (M. Fisher, Realismo capitalista, NERO, Roma, 2018, p.26), come “un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma […] che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione” (ivi., p. 50).

 

Ma ciò che Fisher rimetteva a disposizione del proprio tempo – che in buona parte è ancora il nostro –, innovando il lessico e il taglio prospettico, oltre che il materiale di repertorio, è una postura, una fondamentale differenza di fondo nello sguardo, che in verità lo precede di molto. Si tratta del lascito di quella tradizione senza scuola, di quella pedagogia senza padri, sotterranea come diceva Nietzsche, che proprio oggi si vede atterrita, sulla difensiva, se non meramente abbacchiata. Quella tradizione negletta, restia tanto all’antimodernismo conservatore, quanto al progressismo ingenuo e d’etichetta, e che, difatti, alla “realtà così com’è” non ci ha mai creduto. Non sognatori né tantomeno fidati dell’utopia, ma semplicemente critici; pensatori (e pensatrici) che hanno mostrato che la filosofia può essere di più di un triste centro smistamento di apologie preconfezionate, e che il filosofo più essere più di un semplice “funzionario dell’umanità” (R. Schürmann, On the philosophers’ release from civil service, Kairos 2, 1988, p. 134); e tutto ciò in nome di quella presa in carico dell’attualità che non può che passare per un radicale distanziamento da essa: “una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile” (M. Foucault, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978,1985, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 231). Nietzsche ha definito questa dimensione della critica “inattuale”: quella solitudine che “fraintesa dal popolo come fosse una fuga dalla realtà” è invero il suo “inabissarsi nella realtà” (F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 2017., p.87).

 

Forse questo intendeva Deleuze quando diceva che la critica è un’”espressione attiva di un modo attivo di esistere” (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia. E altri testi, Einaudi, Torino, 2017, p. 5): che tanto il ripudio dogmatico e monolitico del proprio presente, quando il suo assecondamento (gretto o speranzoso) senza esitazioni, sono schemi incapaci di istituire ciò che, come insegna Hadot, il pensiero, nella sua caratura più elevata, ha mostrato che la vita può essere: un’incessante etopoiesi.

 

Per questo, la critica di cui oggi si necessita deve farsi carico della consapevolezza che il nostro tempo, la “nuova ragione del mondo” come Dardot e Laval hanno definito la conformazione attuale del neoliberismo occidentale, è quello dell’ “oscenità di ciò che non ha più segreto, di ciò che è interamente solubile nell’informazione” (J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova, 1987, p. 16) e perciò dev’essere capace di opporre un pensiero critico, ancora una volta nella sua storia, a lato: “sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro” (M. Foucault, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978,1985, op. cit., p. 228).

 

Del resto, ogni attualità ha bisogno del proprio specchio d’acqua inattuale: le psicopatologie della vita quotidiana di Freud, le interruzioni di Brecht, le genealogie di Foucault, l’accelerazionismo di Fisher, ma, se si vuole, già il cinismo di Diogene, l’innocente debolezza di Montaigne o la non violenza di de La Boétie.

 

È ogni volta muoversi sul terreno lubrico del margine, ricordandosi del proprio spessore una zolla ceduta dopo l’altra, senza resistervi, incapaci di arretrare, impressi dal calco dall’inquietudine. Vincere quest’inquietudine e appiattirla su di una tranquillità da museo, grande e quieta come la bellezza nata morta dei neoclassicisti, è stata una delle principali prestazioni del realismo capitalista nel campo culturale, e nella fattispecie filosofico. Allora occorre di nuovo meravigliarsi, riaprirsi alla possibilità del thauma: ricordarsi di quella tradizione di critici, che non descrive se non per praticare, non conosce se non per emanciparsi e, come Marx aveva già perfettamente visto, non interpreta se non per trasformare. Finché pensare sarà un atto pericoloso, varrà ancora la pena fare filosofia.

 

Che cos’è, quindi, la critica? A lungo si è risposto – e ancora oggi scontiamo gli esisti di questa risposta – che essa consiste sostanzialmente nel mostrare le cose per quello che sono realmente. Il pensiero critico si incarna così, attraverso tutte le sue gradazioni espressive – nella filosofia, come nella sociologia, nel giornalismo o nella trap –, in un gesto descrittivo che lacera il sipario ed esibisce i nervi irrorati di sangue della bestia sociale, la sua vita tendinea, brutale. Ma, la domanda è così tutto sommato fatta arretrare unicamente di un passo, e diviene: che cos’è, allora, reale? Non è proprio nelle società iperindustrializzate occidentali, dove il cinismo della noncuranza naif è il vademecum del senso comune, e l’unica religione, come aveva già inteso Benjamin (W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il melangolo, Genova, 2013, pp. 40-51), è quella della materia e del suo prezzo, dove la violenza non è che una delle monete di scambio favorite dal sistema multimiliardario dell’intrattenimento e la rivolta, come diceva Foster Wallace, è ormai solo un prodotto sexy (da serie Netflix, potremmo aggiungere), non è forse proprio in queste società che la “realtà, così com’è” è divenuta la panoplia dietro la quale il capitalismo postfordista si è innervato nella forma del lavoro flessibile quanto precariale, smart quanto inesorabile, della fine dei sogni smodati di un’emancipazione sociale e della fagocitazione consumistica di qualsiasi orizzonte espressivo, culturale, politico o economico?

 

Con coscienza storica, si può certamente riconoscere la legittimità degli innumerevoli tentativi che hanno mirato nel Novecento a un rischiaramento ruvido della coscienza comune attraverso l’esibizione della putrescenza nelle cose, a maggior ragione in riferimento a contesti materiali diversi dall’Occidente industrializzato, com’è nel caso di artisti quali Rocha o pensatori come Fanon. Ma da qualche decennio a questa parte, un tale atteggiamento sembra limitarsi a sostare sulle cose, ben più che andare dietro di esse: dall’apertura di spazi attraverso la decostruzione, si è passati alla semplice descrizione disinteressata alle alternative. Come se i consumatori di carne non avessero la minima idea di ciò che accade nei mattatoi industriali o i dipendenti medi d’azienda non vedessero che i propri dirigenti percepiscono stipendi ingiustificabilmente più alti dei loro. Chi non conosce le condizioni di lavoro dei riders, dei magazzinieri o dei corrieri Amazon? L’economia dei meccanismi di potere, per dirla con Foucault, si è ristrutturata, in qualche modo incorporando la tendenza stessa ad analizzare i sistemi di potere.

 

Così questa presunta critica, feticista dell’evidenza cruda, che si concretizza massimamente, come ha mostrato Jameson (F. Jameson, Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989)), nel clima generalmente postmoderno che diviene dominante negli ambienti culturali europei e americani dagli anni Ottanta in poi, finisce essa stessa per rilanciare il sistema del cui smascheramento si farebbe tanto bella, compiaciuta di aver ricordato con la sua tipica ironia sardonica e distaccata che al mondo esistono violenza e sopraffazione. Insomma, più che una seria presa di distanza dallo status quo, questo nichilismo vanesio ne costituisce un sovrappiù, diventando un suo doppio spaesato.

 

Mark Fisher, come noto, ha definito questo fenomeno complessivo e omnicomprensivo “realismo capitalista”: “la percezione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un’alternativa coerente” (M. Fisher, Realismo capitalista, NERO, Roma, 2018, p.26), come “un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma […] che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione” (ivi., p. 50).

 

Ma ciò che Fisher rimetteva a disposizione del proprio tempo – che in buona parte è ancora il nostro –, innovando il lessico e il taglio prospettico, oltre che il materiale di repertorio, è una postura, una fondamentale differenza di fondo nello sguardo, che in verità lo precede di molto. Si tratta del lascito di quella tradizione senza scuola, di quella pedagogia senza padri, sotterranea come diceva Nietzsche, che proprio oggi si vede atterrita, sulla difensiva, se non meramente abbacchiata. Quella tradizione negletta, restia tanto all’antimodernismo conservatore, quanto al progressismo ingenuo e d’etichetta, e che, difatti, alla “realtà così com’è” non ci ha mai creduto. Non sognatori né tantomeno fidati dell’utopia, ma semplicemente critici; pensatori (e pensatrici) che hanno mostrato che la filosofia può essere di più di un triste centro smistamento di apologie preconfezionate, e che il filosofo più essere più di un semplice “funzionario dell’umanità” (R. Schürmann, On the philosophers’ release from civil service, Kairos 2, 1988, p. 134); e tutto ciò in nome di quella presa in carico dell’attualità che non può che passare per un radicale distanziamento da essa: “una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile” (M. Foucault, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978,1985, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 231). Nietzsche ha definito questa dimensione della critica “inattuale”: quella solitudine che “fraintesa dal popolo come fosse una fuga dalla realtà” è invero il suo “inabissarsi nella realtà” (F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 2017., p.87).

 

Forse questo intendeva Deleuze quando diceva che la critica è un’”espressione attiva di un modo attivo di esistere” (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia. E altri testi, Einaudi, Torino, 2017, p. 5): che tanto il ripudio dogmatico e monolitico del proprio presente, quando il suo assecondamento (gretto o speranzoso) senza esitazioni, sono schemi incapaci di istituire ciò che, come insegna Hadot, il pensiero, nella sua caratura più elevata, ha mostrato che la vita può essere: un’incessante etopoiesi.

 

Per questo, la critica di cui oggi si necessita deve farsi carico della consapevolezza che il nostro tempo, la “nuova ragione del mondo” come Dardot e Laval hanno definito la conformazione attuale del neoliberismo occidentale, è quello dell’ “oscenità di ciò che non ha più segreto, di ciò che è interamente solubile nell’informazione” (J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova, 1987, p. 16) e perciò dev’essere capace di opporre un pensiero critico, ancora una volta nella sua storia, a lato: “sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro” (M. Foucault, Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978,1985, op. cit., p. 228).

 

Del resto, ogni attualità ha bisogno del proprio specchio d’acqua inattuale: le psicopatologie della vita quotidiana di Freud, le interruzioni di Brecht, le genealogie di Foucault, l’accelerazionismo di Fisher, ma, se si vuole, già il cinismo di Diogene, l’innocente debolezza di Montaigne o la non violenza di de La Boétie.

 

È ogni volta muoversi sul terreno lubrico del margine, ricordandosi del proprio spessore una zolla ceduta dopo l’altra, senza resistervi, incapaci di arretrare, impressi dal calco dall’inquietudine. Vincere quest’inquietudine e appiattirla su di una tranquillità da museo, grande e quieta come la bellezza nata morta dei neoclassicisti, è stata una delle principali prestazioni del realismo capitalista nel campo culturale, e nella fattispecie filosofico. Allora occorre di nuovo meravigliarsi, riaprirsi alla possibilità del thauma: ricordarsi di quella tradizione di critici, che non descrive se non per praticare, non conosce se non per emanciparsi e, come Marx aveva già perfettamente visto, non interpreta se non per trasformare. Finché pensare sarà un atto pericoloso, varrà ancora la pena fare filosofia.

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