04.11.2024
In una intervista realizzata per il backstage del suo ultimo film Parthenope, Paolo Sorrentino ha raccontato l’idea dalla quale la realizzazione di questo progetto è principiata: “Mi sono domandato”, egli confida, “che cosa è veramente importante raccontare e mi sono risposto che quello che è veramente importante raccontare è lo scorrere del tempo, inteso come la grandezza della lunghezza della vita, l’epicità che è dentro la lunghezza della vita”; e insiste, dando qualche indizio sulla “trama” del film: “Parthenope ha la fortuna di nascere in un ambiente vagamente aristocratico ma comunque illuminato, che le consente di affrontare la vita in maniera libera e rivede i momenti sacri della sua vita”. Dunque, il regista si lascia andare ad una definizione del sacro: “sacro è quello che ciascuno di noi non dimenticherà mai della sua biografia”. In quest’ultima opera, attraverso uno stile ormai maturo e inconfondibile, Sorrentino segue la vita di una donna napoletana, chiamata Parthenope così come la sirena del mito, dalla nascita alla vecchiaia, insistendo sui momenti significativi della sua biografia, sugli istanti privilegiati sui quali la memoria si sofferma allorquando vuole costruire, insieme a una cronologia degli avvenimenti, anche una storia della vita interiore, nella quale il passato non è un “morto possesso” in cui i fatti si addizionano quantitativamente in maniera indifferente, bensì il serbatoio di ricordi qualitativamente rilevanti, i quali restituiscono un certo senso del sacro.
Ma a quale sacro si fa qui effettivamente riferimento e cosa significa il sacro nella dimensione individuale della vita di ciascuno di noi, dal momento che la nostra situazione esistenziale attuale è, per forza di cose, vincolata ai movimenti di desacralizzazione e secolarizzazione distruttori del senso comune, sociale, culturale del sacro collettivo? Ai tempi del Collège de sociologie, sul finire degli anni ’30, Michel Leiris aveva tentato di introdurre un concetto di sacro privo di legami specifici con gli ambiti ai quali, specie in quei tempi, esso era relegato - la religione, naturalmente, ma anche la patria, la nazione e, ahimè, la razza -, scorgendo un significato esistenziale della dimensione sacra. Non si tratterebbe, in questo senso, di interrogarsi intorno a che cos’è il sacro, quanto piuttosto di domandarsi “Che cos’è il mio sacro?”, e dunque: “si tratta di cercare, attraverso alcuni umilissimi fatti, mutuati dalla vita quotidiana, e posti fuori da ciò che costituisce oggi il sacro ufficiale […], di svelare mediante alcuni fatti minimi quali tratti potrebbero consentire di caratterizzare qualitativamente il mio sacro e concorrere a fissare il limite a partire dal quale so di non muovermi più sul piano delle cose ordinarie (futili o serie, gradevoli o dolorose), ma di essere penetrato in un mondo radicalmente distinto, diverso dal mondo profano quanto il fuoco dall’acqua” (M. Leiris, Il sacro nella vita quotidiana, in D. Hollier (a cura di), Il Collegio di sociologia (1937-1939), Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 32).
Secondo Leiris, la stagione della vita nella quale si formano le immagini che, addensate, andranno poi, nel ricordo, a costituire il profilo del sacro individuale, è l’infanzia, il tempo della fascinazione, i cui “materiali” risultano “i meno adulterati”; nell’infanzia, le prime esperienze del mondo offerte al bambino sono da questo vissute secondo quella duplice dinamica di timore reverenziale e di attrazione incontrollabile, la quale rende conto della duplice natura del sacro, attenzionata dalla sociologia francese – specialmente nella figura di Durkheim: un sacro destro, il sacro dell’ “autorità stabilita” e che, a sua volta, stabilisce i limiti, e il sacro sinistro, il polo dell’ “illecito”, della trasgressione e dunque del desiderio di oltrepassare quegli stessi limiti. Leiris elenca dunque una serie di oggetti, di luoghi e perfino espressioni verbali, nelle quali si annida il senso del suo sacro: una serie di oggetti appartenuti al padre, tra cui un cappello a cilindro, una pistola Smith e Wesson, un portamonete – simboli di autorità, di coraggio, di ricchezza -, una serie di luoghi interni o esterni alla casa familiare, la camera da letto, il bagno – investiti, questi ultimi, della doppiezza propria alle faccende sessuali, ancora una volta strette tra lecito e illecito -, l’ippodromo, nelle cui corse Leiris scoprirà lo stesso senso di pericolo e di attrazione del pericolo che più tardi, egli stesso, avrebbe attribuito al toreador e all’esperienza della tauromachia; e ancora, un nome di donna d’ascendenza biblica, un’esclamazione esotica nel contesto di un gioco da bambini, la pronuncia sbagliata di un vocabolo di uso comune. In questi momenti privilegiati, è come se “si aprisse una breccia atta a far passare un mondo di rivelazioni” (Ibid., p. 39).
Questa riflessione sul sacro individuale non è quella messa in scena da Sorrentino nel suo Parthenope: innanzitutto, non è l’infanzia – del tutto ignorata – il luogo nel quale si situa l’indimenticabile – segno, come dichiarato, del sacro secondo Sorrentino -, quanto piuttosto la giovinezza, che non è tanto il momento della scoperta ingenua, quanto piuttosto quello dell’illusione. Ecco allora le vacanze estive a Capri, la dolcezza dell’acqua sulla pelle, la malinconia delle passeggiate, gli incontri fortuiti ma ricchi di stimoli; ecco, soprattutto, l’innamoramento e la sua fragile poetica: la giovinezza è il transeunte, ma un transeunte di cui, a differenza di ciò che accade nell’infanzia, si ha contezza. È la coscienza della transitorietà della giovinezza e non la sua semplice fugacità a far sì che essa possa essere re-investita, nell’età adulta, da un alone onirico, di sogno ad occhi aperti: essa rassomiglia a quelle esperienze sulle quali perfino Husserl ha posto l’accento nella sua fenomenologia, con l’idea di un mistero irrisolto - i casi limite della coscienza; si tratta di quelle esperienze nelle quali la coscienza, pur non estinguendosi in una sorta di “partecipazione mistica”, rimane come latente, cessa di essere il punto cardine dell’esperienza per mantenersi in un ruolo subordinato, attraversata da flussi che essa non può padroneggiare e rispetto ai quali essa, in ogni caso, non può rimanere indifferente. Si tratta, in una certa misura, di ciò che accade nei mondi del sogno, e il ricordo della giovinezza nell’età adulta può assumere facilmente un aspetto simile. Piuttosto che il sacro pensato da Leiris, ad essere in gioco, in questa circostanza, è la definizione di sacro data da Colette Peignot, da Laure, musa tanto di Leiris quanto di Bataille, proprio negli anni del Collège: secondo Laure, “le sacré c’est ce moment infiniment rare où la part éternelle que chaque être porte en soi dans la vie, se trouve emportée dans le mouvement universel, integrée dans ce mouvement, realisée” (C. Peignot, Le Sacré, in Id., Écrits. Fragments, lettres, 10/18, Paris 1978, p. 161).
E vi è una parte eterna della giovane e bellissima Parthenope – interpretata dalla rivelazione Celeste Dalla Porta -, legata alla grande metafora del film sulla città di Napoli, un luogo nel quale è sempre più difficile distinguere tra sacro e profano, tra bellezza e inferno, luogo di mélange improvvisi e imprevedibili, quasi un luogo di creolizzazione degli immaginari. Se le vicende della protagonista e quelle della città si sviluppano di pari passo – appaiono, anch’essi istantaneamente, la ferita del colera, del terremoto, infine la festa per lo scudetto conquistato nel 2023 -, è come se l’esperienza individuale venisse appunto realizzata, divenisse reale, mediante lo scarto fra questa e la vita collettiva: in questo modo, determinati contenuti del passato individuale sono messi in relazione con alcuni contenuti della vita collettiva, senza essere da questi ultimi sussunti. Ciò che è indimenticabile della propria biografia non è allora l’esperienza vissuta – che, nell’età adulta, fa esclamare “ecco come sono divenuto!” -, quanto piuttosto l’esperienza in quanto tale, che, almeno nel ricordo, riapre alla possibilità di altri divenire. In questo senso, il trauma al centro perfetto del film, spartiacque della vita della protagonista, è la ferita, il vuoto, il manque, con il quale la sua identità dovrà continuamente confrontarsi e con il quale finirà infine con il coincidere, seppur mediante quello scarto costitutivo che rende possibile il rapporto, la relazione con sé, con quello che si è stati, con quello che si sarebbe potuto essere.
Per quanto il film sia stato piuttosto elogiato dalla critica, qualcuno ha sostenuto che si tratti di una “auto-parodia di Sorrentino”, perfino di una “lunghissima pubblicità per un profumo troppo costoso”: in effetti, ciò che manca, in quest’opera, come spesso in Sorrentino, è qualsivoglia scadimento nell’autenticità, tutto è trasfigurato. Ancora il regista ha dichiarato: “La verità non fa parte della giovinezza, è un luogo dove si ha a che fare con l’insincerità, si ha a che fare con il sogno, si fa un racconto epico di sé, si balla da soli davanti allo specchio”; l’età adulta sarebbe invece – seguendo in questo caso Kierkegaard – il passaggio dalla vita estetica alla vita etica. Se una certa dimensione del sacro è in gioco nella giovinezza, allora quest’affermazione va contestata: la verità fa parte della giovinezza allo stesso titolo per cui la realtà fa parte del sogno, e quando nel film si sente che “la verità è indicibile”, non si sostiene nient’altro, se non che il sacro – la verità della giovinezza – è ciò di cui la coscienza non può appropriarsi, ciò che non può intestarsi; un indice che, direbbe Georges Bataille, rimanda all’”intimità perduta”.
Cosa rimane allora del sacro, quando la giovinezza finisce? Ciò è l’indicibile, ma la coscienza non vi si può rassegnare: nel solco della migliore tradizione delle rimembranze, il prestigioso, l’insolito, il pericoloso, l’ambiguo, il proibito, il segreto, il vertiginoso – gli attributi del sacro – hanno l’aspetto del perduto; ma la perdita, fin dal principio, era inscritta nella giovinezza: essa è solo in quanto perduta. Questo, forse, il senso ultimo del sacro di Parthenope: Riccardo Cocciante, nei momenti più intensi del film, canta, del resto, “era già tutto previsto”.