01.12.2024
Il testo che segue è tatto dalla Premessa al volume di Ubaldo Fadini, Divenire umani. Per una nuova antropologia filosofica, edito da Mc Graw Hill.
Premessa
Ancora la questione dell'incognita corporea o del sociale “incorporato” sta alla base delle pagine che seguono, del tentativo di delineare una nuova antropologia filosofica in grado di cogliere le articolazioni di una esperienza del soggetto contemporaneo che complessivamente si presenta a partire da accelerazioni di una socializzazione intermittente, con effetti di continuità e discontinuità, specifica del modo di funzionamento della nostra società. Una antropologia filosofica “concreta”, quindi, che si confronta con la singolare e-staticità umana, con quella attitudine che caratterizza una forma del vivente – la “nostra” – a portarsi fuori di sé, a trasferirsi altrove rispetto al contesto naturalmente predisposto di esercizio dei propri sensi. Porsi coscientemente fuori di sé nella elaborazione di sensazioni e cognizioni in grado di garantire dei livelli di tenuta soddisfacente per ciò che appare delinearsi come la trama mutevole delle possibilità di esistenza e di vita futura: è in tal senso che si può riprendere l'affermazione di Günther Anders (e di Helmuth Plessner, accanto ad altri esponenti di rilievo dell'antropologia filosofica novecentesca, ad esempio Arnold Gehlen) a proposito del carattere naturalmente artificiale dell'umano, della sua essenziale instabilità. Da ciò scaturisce l'obbligo a cercare di governare/gestire l'incertezza/insicurezza che ne deriva svolgendo tutti quegli esercizi – di ricaduta pure teorica – che necessariamente predispongono alla realizzazione del progetto di un esistere più soddisfacente.
È la complessità del mondo, la proliferazione di ambienti artificiali di collocazione, accanto a quello naturale, a dar sostanza sotto veste di obblighi/servizi alle pratiche di attivazione/disattivazione di tutto ciò che si presenta in molteplici modalità come nesso variabile di capacità umane e costrutti tecnici. Può essere allora di una qualche utilità riprendere uno dei fili della tessitura di pensiero critico di matrice “francofortese” (si pensi qui a Theodor Wiesengrund Adorno) nel momento in cui si può cercare di assolvere gli obblighi derivanti da tale esperienza della complessità in una prospettiva che non sia quella della riproposizione di forme di adattamento, nel senso della sottomissione storicamente determinata, che impediscono materialmente agli esseri umani di sperimentare almeno parzialmente i loro potenziali di sensibilità e intelligenza, di raggiungere cioè un più di effettiva auto-padronanza e di risoluzione della loro relazionalità non unicamente in qualcosa di gerarchicamente istituito o comunque di direzionato nel solo rispetto della legge odierna di funzionamento della “nostra” società di scambio. Dalla presa di quest'ultima “osservanza”, che si palesa sempre più come una sorta di “destino”, dunque non facilmente aggirabile, un nuovo sguardo antropologico, in senso filosofico, può forse svincolarsi mediante ciò che Ulrich Sonnemann indicava, poco più di mezzo secolo fa, nella sua Negative Anthropologie. Vorstudien zur Sabotage des Schicksals (1969), come una attività di “sabotaggio”, vale a dire una riconsiderazione dei bisogni reali, delle esigenze di una vita effettivamente auto-determinata, pur nel riconoscimento della sua parzialità/relazionalità di fondo, in grado di far fronte all'accelerazione – ben visibile oggi nella tecnicizzazione “spinta” della nostra “industrialità” (Romano Alquati), dei processi di “lavorizzazione” dell'agire complessivo – delle dinamiche concrete che consegnano gli esseri umani, nella ricerca di un “rifugio”, a ordinamenti del mondo che risultano in definitiva estranei, per non dire spesso ostili, nei confronti del desiderio di una vita finalmente “buona”.
La negative Anthropologie può essere allora di un qualche profitto nell'affrontare concretamente il motivo della cosiddetta “metamorfosi antropologica” che riguarda da vicino il soggetto contemporaneo, ampiamente riconfigurato da nessi originali di progressioni tecnologiche estremamente sofisticate e singolari specificazioni delle stesse qualità umane; tale “metamorfosi” va presa seriamente in considerazione per individuare in essa delle possibilità (se si preferisce: delle “occasioni”) per articolare differentemente il rapporto con un mondo non percepito soltanto come qualcosa di poco allettante, “freddo”, se non decisamente avverso. Restituire multilateralità all'agire umano in vista di una salutare presa di distanza da ciò che pretende – anche nell'apprezzamento/strumentalizzazione della elasticità di fondo che lo contraddistingue – il suo essere comunque subordinato, effettivamente e pienamente dipendente; questo distacco relativo può delinearsi come una premessa essenziale per materializzare – in termini che fanno riferimento alle indagini, sia pure di segno diverso, di Hartmut Rosa e Tim Ingold, tra gli altri – un approssimare di carattere “responsivo”, una delineazione del rapporto tra sé e il mondo (dalla parte degli oggetti, degli ambienti e dei lavori) che possa favorire quel più di auto-padronanza che appare essere indispensabile per non fare infine del nostro pianeta – e quindi anche di noi – una “terra bruciata” (Jonathan Crary).
Questione antropologica e, insieme, problema del mondo, quindi: da affrontare in quei caratteri/tratti che non tradiscono il fatto che le loro concettualizzazioni non si presentano affatto come univoche e che in un senso appunto “antropologico” (o “esistenziale”: per riprendere così Martin Heidegger) il mondo stesso non cesserà fortunatamente di risultare comunque complessivamente enigmatico, cioè plurale nel suo essere (di) relazione, così come, d'altra parte, l'essere umano con i “suoi” divenire.
© Ubaldo Fadini, Divenire umani. Per una nuova antropologia filosofica, Mc Graw Hill 2024