13.10.2024
Il testo che segue è l'Avant-Propos al volume di Gianluca Viola, Il bisogno di perdersi. Saggi intorno a Georges Bataille, edito da Clinamen.
Avant-Propos
La prima riga di una prefazione dovrebbe suonare solenne, potente ed arrogante, come ad esempio: «Non ai miei contemporanei, non ai miei compatrioti ma all’umanità io consegno la mia opera ormai compiuta, persuaso che non sarà per essa senza valore», salvo poi mettere immediatamente le mani avanti, come usa dire, affermando che questo valore «qual è solitamente il destino del bene in ogni genere, verrà riconosciuto con ritardo»1.
I saggi raccolti per formare questo libro non hanno la pretesa di destinarsi da sé all’umanità – qualsiasi cosa essa sia; il loro autore non sente minimamente la necessità di assegnargli, ab ovo, un qualche valore, né di lasciare l’ardua sentenza ai posteri, come dice il poeta. Se egli accordasse veramente un qualche valore preliminare a questi saggi avrebbe completamente tradito il senso della sua ricerca. Allo stesso modo, se egli si rimettesse integralmente al giudizio altrui, si sottometterebbe nuovamente alla tirannia del valore-per-altri, prostrandosi al criterio dell’utilità per i ricercatori e del gusto per tutti gli altri. Non c’è bisogno, allora, né di dire: “è stato scoperto qui un tratto assolutamente fondamentale dell’umanità intera e ad esso è stato dato il nome di bisogno di perdersi”, né di convincere il pubblico del fatto che tale scoperta possiede un’indubbia utilità per i propri studi o addirittura per le proprie vite, e nemmeno auspicare che sia la forma in cui questa scoperta è stata espressa a colpire la sensibilità e l’intelletto. È giusto annunciare piuttosto che l’autore, in queste pagine, non ha fatto alcuna scoperta, se non quella di se stesso2: è in sé che ha incontrato il bisogno di perdersi e non ha inteso far altro che comunicarlo – e, per quanto tale incontro gli avesse dimostrato inesorabilmente l’insufficienza della filosofia rispetto a tale bisogno, è nella filosofia o, almeno, in una certa filosofia che egli andrà adesso a ricercarlo3; solo chi ha fatto questo incontro ed ha ottenuto, nell’esperienza, la coscienza dell’esistenza in sé di una vocazione di questo tipo, di questo beruf, potrà avere accesso al significato ultimo di questa comunicazione.
Il titolo che egli ha scelto per questa raccolta, del resto, vorrebbe farlo derivare da alcuni passaggi di Georges Bataille, come ad esempio: «nell’incontrare l’altro non si trova l’essere che vuole perseverare in se stesso, ma l’essere posseduto dal bisogno di perdersi»4, ma anche «“il bisogno folgorante di perdersi” è la parte più interna e più distante dalla realtà, parte viva e in movimento, che non ha però a che vedere con una supposta sostanza»5; e infine:
«Vi è una sorta di comunicazione maggiore in cui tutto è violentemente messo in questione. A quanto pare solo se entra in gioco la morte, la vita può trovare l’estrema incandescenza della luce. Tuttavia, la ricerca limitata e sempre tesa di tali momenti porta alla durezza d’animo. L’insistenza è probabilmente contraria all’alleviante bisogno di perdersi: quando un pensiero ossessivo di estasi domina la mia vita, posso chiedermi se quest’estasi, cui potrei aspirare solo perdendomi, io non voglia possederla, io non voglia possederla come si possiede un potere meritevole di essere ammirato. Quando il bisogno di comunicare perdendosi si riduce a quello di possedere di più, è tempo di vedere che nulla di sublime può esistere nell’uomo senza che sia necessario anche riderne.»6
L’autore ha riso molto nella composizione di questi saggi; si faticherebbe a credere, per chi lo conosce e sa cosa significa per lui lo scrivere, ma è così. Non ha riso perché era contento quando un argomento soddisfaceva il suo ricercare o quando credeva di aver trovato una soluzione al problema che si era posto; ha riso soprattutto delle contraddizioni, delle confusioni, dei vicoli ciechi incontrati durante il percorso.
Questo libro consacrato alle diverse modalità del perdersi, di farla finita finalmente con il nostro povero Io, dovrebbe suscitare in ognuno, per essere almeno approcciato, la stessa reazione che si avrebbe qualora si vedesse cadere qualcuno davanti ai nostri occhi. Non tutti, ma molti, ridono ancora nel vedere un uomo perdere improvvisamente l’equilibrio. Essi non sanno perché ridono ed è proprio questo non-sapere a rendere veramente gustoso lo spirito del riso che li possiede. Chi non ride, si sporge invece per aiutare il povero malcapitato, per rimetterlo in piedi, per fare in modo di fargli recuperare il più presto possibile la posizione e far sembrare come se mai niente fosse accaduto. Non so se a qualcuno di voi è capitato di cadere per strada, magari nelle ore di punta, sul marciapiede di una città affollata: si mette male il piede e si perde l’equilibrio; v’è un solo istante, un solo ed unico istante, in cui abbiamo ancora la possibilità di non finire rovinosamente sull’asfalto. Se riusciamo a trattenere il nostro corpo dalla caduta, cerchiamo immediatamente di fingere che nulla sia successo, di modo che solo chi ci ha visti sbilanciarci abbia potuto avere il piacere di assistere a qualcosa che, infine, non si è verificato. Ogni saggio di questo libro vuole la perdita d’equilibrio: laddove l’autore è caduto, lo si irrida pure o, a seconda delle sensibilità, lo si aiuti a rialzarsi7. Se però tali inciampi non si sono trasformati in crolli, si abbia la benevolenza di non fingere che nulla sia accaduto. Niente frena il bisogno di perdersi quanto l’indifferenza di coloro a cui è comunicato8.
Come le feste pensate da Canetti, i saggi «si chiamano l’un l’altro». Essi sono accomunati da due tratti fondamentali: il riferimento costante alla categoria filosofica del dionisiaco e l’insistere sulla figura debordante di Georges Bataille9. I primi due possono essere considerati delle appendici al volume sul Dionisiaco nel pensiero contemporaneo10, dedicati rispettivamente alla festa e alla perversione. Il terzo è invece centrato su un tema certamente affine alla categoria del dionisiaco, ovvero l’eros, ed è seguito da un’appendice dedicata al concetto, appunto, di eros, nella filosofia di Lévinas. I seguenti quattro – dedicati alla filosofia, alla poesia, alla spiritualità, all’amore – rappresentano diversi tentativi di esaminare le prospettive aperte dal bisogno di perdersi. L’ultimo breve testo, infine, riguarda il rapporto instauratosi tra l’autore e l’avventura intellettuale di Georges Bataille, nel corso del suo lavoro e della sua vita.
È il caso di chiarire anche il significato dell’avverbio intorno, comparso nel sottotitolo: esso ha lo stesso triplice senso che gli riconosceva Furio Jesi, quando parlava di «mitologie intorno all’illuminismo»11. I saggi sono intorno a Georges Bataille nel senso che 1) hanno per oggetto Georges Bataille – anche laddove il riferimento a Bataille pare più sfumato e meno focalizzato; 2) si trovano nei pressi della filosofia e del pensiero di Bataille; 3) si stringono attorno a Bataille, circondandolo.
L’autore ha insistito con se stesso affinché fosse anteposto a mo’ di prologo un frammento, nell’auspicio che esso possa delineare lo scenario a partire dal quale si svolgono le sue considerazioni; alcuni punti di partenza che le pagine a seguire si assumono il compito di verificare.
Prologo – frammento sul tutto e il niente della nostra vita
Questo era, un tempo, il sacrificio, la festa, la prodigalità dei sovrani. Questo è, oggi, l’arte, l’eros, la spiritualità. Il vero amore, solo se è inaudito, ci pone all’altezza dell’universo, come il riso e il pianto.
La chiave è l’assoluta insubordinazione: la revoca di tutti i limiti, il superamento di tutti i dualismi.
Il sangue che fuoriesce dalle proprie ferite chiama il sangue che fuoriesce dalle ferite altrui: c’è comunicazione, mondo comune di pathos.
Le eruzioni vulcaniche del pathos disgregano l’illusione dell’unità, la menzogna dell’essenza, l’idiozia dell’isolamento.
Sparagmòs, riduzione in frammenti: l’uomo stesso, che era una sola grande ferita nell’Essere, si abbandona alla dispersione.
Nel movimento della dispersione – il baccanale – egli si scopre portatore di una povertà infinita, della sua stessa insufficienza. Può concepire allora la vita come dono da restituire ad usura; egli restituisce la vita alla vita, donando la sua povertà, donando ciò che non ha; solo chi non ha può, a rigore, donare.
Il dono di sé, in quanto dono di ni-ente, è la rimarginazione integrale delle ferite, la realizzazione – il dileguare, lo scomparire. Il movimento della morte insiste sulla via della vita, senza consumarla né assorbirla. L’uomo all’altezza dell’universo, già morto a se stesso, ride della morte, fragorosamente, come Zarathustra, come Georges Bataille, come Yüe-shan: «la morte è in un certo senso un’impostura»13.
Si dia il via alle danze.
1 A. Schopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia 2009, p. 25.
2 Possiamo rendere all’illustre Schopenhauer ciò che poco fa gli abbiamo tolto, rammentando questa fondamentale riga: «L’uomo, ο άνθρωπος, is in the wrong già in senso generale, in quanto esiste ed è uomo; in assoluta coerenza con tutto questo, ogni uomo individuale, ο τις άνθρωπος, nell’abbracciare con lo sguardo la sua vita, si trova quindi sempre in the wrong. Il fatto di rendersene conto in senso generale è la sua salvezza, alla quale può pervenire soltanto se inizia a riconoscerlo nel caso singolo, cioè nel corso della sua vita individuale.» (A. Schopenhauer, I manoscritti giovanili. 1804-1818, Milano, Adelphi 1996, pp. 713-714).
3 Non scrisse forse Bataille, in una famosa lettera ad Alexandre Kojève: «Immagino che la mia vita – o, meglio ancora, il suo aborto, la ferita aperta che è la mia vita – costituisca di per sé la confutazione del sistema chiuso di Hegel»? (G. Bataille, Lettera a X., incaricato di un corso su Hegel…, in D. Hollier (a cura di), Il Collegio di sociologia (1937-1939), Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 111). Eppure, è proprio a Bataille che si deve, nel Novecento, il maggior tentativo di sanare l’antico iato tra la filosofia e la vita.
4 G. Bataille, L’amicizia, Milano, SE 2011, p. 25.
5 Ivi., p. 31.
6 G. Bataille, Il limite dell’utile, Milano, Adelphi 2000, pp. 145-146.
7 Quant’è enigmatica, però, quella parola frammentaria di Blanchot che così recita: «Quando si cade – sempre dall’alto per quanto si sia in basso – e una mano amica all’improvviso vi afferra nel momento più tenebroso della caduta, ci si accorge che in fondo non si cadeva, che si stava solo rannicchiati, paralizzati dal sentimento di trovarsi lì a torto, e muovendosi tanto meno in quanto non ci si dovrebbe trovare in quel posto» (M. Blanchot, Il passo al di là, Bologna, Marietti 1989, p. 94).
8 D’altra parte, scrivere intorno a Georges Bataille, nel milieu culturale italiano – semmai ne dovesse esistere ancora uno – espone irrimediabilmente a questo genere di cadute e pare consegnare chi scrive ad un destino di enigmatica indifferenza altrui. Malgrado le eccezioni che non si mancherà di sottolineare nel seguito, il dibattito sull’opera di Bataille in Italia non ha mai superato, per così dire, un’indagine di superficie, condotta secondo pregiudizi incapaci di reggere ad un esame lievemente più attento, condotto sui testi e non sull’impressione che essi ci rimandano – pregiudizi quali, ad esempio: Bataille romanziere pruriginoso e scandaloso, Bataille fustigatore perverso della moralità cristiano-cattolica, Bataille cripto-fascista, Bataille pre-maoista, Bataille esaltatore di atrocità, e via dicendo (per tacere di quelle più contemporanee: Bataille teorico della decrescita felice, Bataille anarco-libertario, Bataille spiritualista new age...). Inutile dire che tutte queste etichette non necessitano nemmeno d’esser rigettate, dacché il solo gettarle nel campo della riflessione ne manifesta la ridicola insostenibilità. Sulla figura di Bataille in Italia si veda: M. Galletti, Le monstre souterrain. Georges Bataille dans la culture italienne, in D.Hollier (a cura di), Georges Bataille après tout, Paris, Belin 1995, pp. 245-270.
9 Tale mèlange tra i motivi tradizionalmente accostati alla categoria del dionisiaco e le esperienze di Georges Bataille – costituente parte dell’ossatura del volume sul Dionisiaco citato nella nota successiva ed assolutamente centrale in questo volume sul bisogno di perdersi – parrebbe almeno forzato, stando alle osservazioni di un autorevole critico italiano di Bataille, come Mario Perniola. Commentando il volume Le Lacrime di Eros, che propone una sorta di storia dell’erotismo nell’arte, Perniola afferma: «La sua valutazione (di Bataille, ndr) di Dioniso nell’ambito di un erotismo iconoclastico trasgressore della norma resta cauta e sostanzialmente diversa dagli entusiasmi incondizionati del giovane Nietzsche. Certo Dioniso è il dio che dissolve le forme, le identità singole, in un’orgia rituale in cui sessualità e violenza si confondono; è l’opposto di Apollo, il quale tutela e preserva l’immagine; è il dio dell’ebbrezza, dello spreco, della dilapidazione giocosa delle ricchezze; è il dio dei poveri e delle donne, del sacrificio cruento, della festa, dell’estasi…e tuttavia Bataille non riesce a trovare, per descrivere il mondo dionisiaco, le parole fervide e commosse con cui ha evocato il mondo preistorico. La sua connessione col lavoro dei campi, con la coltura della vite e quindi col mondo servile dell’utilità e delle preoccupazioni materiali, il carattere limitato della follia cui induce i suoi adepti, la relativa facilità con cui degenera nella volgare deboscia oppure è recuperato in cerimonie raffinate ed edulcorate, inducono Bataille ad un certo malcelato sospetto verso Dioniso, che per tanti aspetti gli dovrebbe essere affine e congeniale» (M. Perniola, L’iconoclasma erotico di Bataille, in Id., Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille, Verona, Ombre Corte 1998, p. 144). Val la pena commentare brevemente queste righe: se è vero che Bataille non mostra particolare entusiasmo nelle poche volte che affronta direttamente il problema del dionisiaco dal punto di vista dei dati storici – sarebbe a dire, essenzialmente, il dionisismo greco – specialmente se confrontato a “mondi” rispetto ai quali Bataille sembra dimostrare maggior confidenza e interesse – la preistoria, come giustamente Perniola segnala, ma anche il Messico azteco e perfino il mondo cristiano medievale -, e quindi si può dar ragione a Perniola su questo punto, il filosofo italiano non sembra ignorare il profondo significato di Dioniso in quanto figura dell’Altro, oltre che del disfacimento del soggetto in un’ebbrezza che si faticherebbe a non definire sovrana, in un senso, se non assimilabile, certamente assai vicino a Bataille. L’opportunità, dunque, di investire l’opera di Bataille mediante il ricorso al dionisiaco non è uno dei tanti tentativi, susseguitisi nella storia della critica, di ricondurre quest’opera «nei limiti di un’esperienza positiva, in sostanziale accordo col mondo» (M. Perniola, Georges Bataille e il negativo, in Ivi., p. 67) ma di rendere l’esperienza di Bataille estranea a se stessa e nuovamente altra mediante il ricorso a qualcosa che, nei suoi scritti, non viene direttamente tematizzato ma rimane elemento oscuro, occulto, non assorbibile nello sviluppo concettuale e capace di seguire quest’ultimo per tutto il suo corso, come inassimilabile differenza e dunque come una lettura minore di Georges Bataille stesso. Faremmo pace con Perniola, allora, qualora ammettessimo che tale visione del dionisiaco in Bataille è un servigio reso al negativo fin nell’opera stessa di Bataille. Sul rapporto tra Bataille e Dioniso si vedano almeno i numeri 3-4 del luglio 1937 della rivista «Acéphale» in G. Bataille, La congiura sacra, Torino, Bollati Boringhieri 1997, pp. 60-105; ma anche l’articolo in un numero speciale di «Voyage en Grèce», del 1946: G. Bataille, Dionysos Redivivus, in Id., Œuvres Complètes XI. Articles I 1944-1949, Paris, Gallimard 1988, pp. 67-69.
10 G. Viola, Il Dionisiaco nel pensiero contemporaneo. Da Nietzsche a Carmelo Bene, Modena, Mucchi 2023.
11 F. Jesi, Mitologie intorno all’illuminismo, Roma, Edizioni di Comunità 1972, pp. 7-8.
12 G. Deleuze, L’immanenza, una vita…, in «aut-aut», 1996, n. 271-272, pp. 4-7.
13 G. Bataille, L’esperienza interiore, Bari, Dedalo 2002, p. 112.
© Gianluca Viola, Il bisogno di perdersi. Saggi intorno a Georges Bataille , Clinamen 2024