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Marco Cavallo
Giuliano Scabia

06.10.2024
Il testo che di seguito presentiamo è la Premessa al volume Marco CavalloUna storia di teatro e cura, di Giuliano Scabia, edito da Meltemi.

Premessa

Natale 1972. Venezia, durante le feste, è un punto d’obbligo per tutti quelli che se ne sono andati a lavorare fuori città, c’è una sorta di strano appuntamento. In questo clima e in casa di Franco Basaglia è nata l’idea di fare un lavoro collettivo nell’ospedale psichiatrico di Trieste.

La proposta è stata subito accolta in un primo tempo da Vittorio e Giuliano, poi via via da Federico, Ortensia, Stefano, Vittoria.

Si è formato, così, un gruppo di persone che, per vari motivi, hanno messo a disposizione la propria professionalità, perché decisi a usarla soprattutto per cercare un nuovo modo di stare insieme.

Nessuno di noi era mai stato in un ospedale psichiatrico, né aveva alcuna conoscenza psichiatrica. Eravamo pittori, registi, scrittori, animatori, insegnanti, fotografi o altro e non sapevamo a cosa ci sarebbe servita la nostra tecnica, la nostra conoscenza. Non si potevano fare progetti: insegnare a disegnare? insegnare a scolpire? insegnare a recitare? non era facile. Non avremmo avuto un pubblico cui esibire le nostre opere, né scolari da istruire in tecniche particolari, né bambini da divertire, ma una realtà umana che volevamo aiutare a modificare. Provvisori, di passaggio, senza obblighi e rapporti precisi di lavoro, senza essere retribuiti, entravamo per un periodo in un ospedale in trasformazione.

Eravamo gli “artisti” e questa definizione era stata scelta proprio per l’ambiguità che conteneva e che ci avrebbe consentito di essere riconosciuti dai malati come persone estranee alla cura, alla custodia: estranee al manicomio.

Volevamo soprattutto attuare una forma di comunicazione, non codificata né codificabile, che si sarebbe strutturata gradualmente nel tempo. Lavorammo in una situazione difficile, stimolante e assolutamente nuova, rifiutando, però, di instaurare un rapporto da sperimentatori su cavie.

Ciò che contava era vivere l’esperienza, coscienti di dover rinunciare a tutta una struttura mentale, condizionata dalle abitudini della vita quotidiana e dai rapporti con la “gente normale”, per averli con persone che erano malate, imprigionate ed escluse.

Ci siamo resi conto che esistono due tipi di creatività: quella che la professione obbliga ad avere e quella che nasce dal confronto continuo con la realtà. Nel nostro lavoro, a Trieste, abbiamo cercato di usare queste due creatività insieme, convinti che solo in questo modo l’individuo amplifichi veramente tutte le sue facoltà per comprendere e risolvere i problemi che gli si pongono.

Siamo stati insieme ai malati per due mesi (tempo che ci è stato dato e che ci siamo dati). Siamo riusciti, attraverso la costruzione di Marco Cavallo, i disegni, il canto, i balli, le discussioni con i malati e con medici e infermieri a stimolare una atmosfera di tensione e di comunicazione tra tutti noi. Questa atmosfera ha caricato la figura di Marco Cavallo del peso della liberazione collettiva che si è espressa con l’uscita nella città: per le strade di Trieste, a San Giusto, nel quartiere di San Vito. Abbiamo vissuto per un giorno quello che vorremmo si realizzasse sempre: abbiamo cantato la canzone di Marco Cavallo lotta per gli esclusi con lo slancio, la rabbia e la consapevolezza che tutti siamo molto lontani dalla liberazione.

                                    Vittorio Basaglia, Ortensia Mele, Federico Velludo,

Vittoria Basaglia, Stefano Stradiotto

La stesura della cronaca di Marco Cavallo è anch’essa un itinerario – come un itinerario (di ricerca e di vita in comune) è stata l’esperienza del laboratorio. Eravamo partiti dall’idea di fare una scrittura a due (io e Vittorio Basaglia), partendo dagli appunti da me presi di giorno in giorno. La scrittura a due non è stata possibile. Abbiamo deciso che sarei stato il curatore della “cronaca” e della comunicazione agli altri di ciò che avevamo fatto a Trieste (da ogni parte, fra l’altro, tale informazione ci veniva richiesta e le informazioni che giravano erano imprecise). Col procedere della narrazione ho sentito sempre di più l’esigenza di una verifica da parte dei miei collaboratori e di chi ci era stato più vicino: verifica che era d’altra parte un’esigenza, anche, di tutti i miei compagni. È cominciato così un processo a catena. La “cronaca” è stata rivista, analizzata, rimaneggiata, prima da Vittorio Basaglia, Stefano Stradiotto, Ortensia Mele, Vittoria Basaglia, Federico Velludo; e poi, con estrema attenzione, da Franca Basaglia. A questo punto abbiamo pensato che anche i medici che avevano lavorato con noi dovevano rivedere la “cronaca”. Al limite, infatti, tutti quelli che erano venuti al laboratorio P erano entrati a far parte del gruppo. Così la rilettura è stata compiuta, fra gli altri, da Peppe Dell’Acqua, Franco Rotelli, Mario Reali, Enzo Sarli, Giancarlo Postiglione (tutti medici dell’OPP), e poi da Pierluigi Olivi e Mark Smith, da Mariagrazia Giannichedda e Neva Gasparo, da Franco Basaglia e da persone che non erano mai venute al P (studenti dell’Università di Firenze), o che ci erano state per qualche giorno (studenti dell’Università di Bologna). E da persone che non erano state a Trieste, ma che erano curiose di sapere che cosa avevamo fatto, e spesso non appartenevano al mondo intellettuale. L’itinerario di scrittura e confronto, durato più di un anno, avrebbe potuto continuare ancora a lungo, investendo anche i ricoverati che avevano lavorato con noi. A questo punto era ipotizzabile una scrittura e riscrittura che proseguisse per molto tempo, e cercasse di tirare in ballo tutte le persone (qualche migliaio) che in qualche modo avevano avuto un rapporto col laboratorio P. Una scrittura collettiva che diventava una nuova ricerca. Abbiamo deciso però di darci un termine, e di far continuare questo itinerario al libro, che vuol essere innanzi tutto uno stimolo: non a ripetere l’esperienza di Marco Cavallo, ma a intervenire in ogni luogo e in ogni comunità cercando di rispondere alle domande che quella comunità pone e alle contraddizioni che le domande palesemente o celatamente contengono. A tutti coloro che in qualche modo sono entrati in questa prima fase dell’itinerario di Marco Cavallo, contribuendo a toglierlo da un’ottica che sarebbe stata eccessivamente segnata dal mio modo di essere scrittore e uomo di teatro, va il ringraziamento per quanto sono riusciti a evitarmi errori di imprecisione e di linguaggio troppo letterario o troppo astratto. Quanto rimane di impreciso e incompleto va ascritto soltanto alla responsabilità del “cronista”.

© Giuliano Scabia, Marco cavallo. Una storia di teatro e cura, Meltemi 2024

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