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Riflessioni sulla scrittura di Annie Ernaux
Gianluca Viola

22.03.2025

 

Cosa significa davvero scrivere? Non scrivere per raccontare, per spiegare, per adornare — ma scrivere al punto da scomparire nella parola, lasciarsi attraversare da essa come da una forza estranea e necessaria. Nel corso di una puntata della trasmissione Apostrophes, nel settembre del 1984, intervistata per l’occasione dal conduttore Bernand Pivot e incalzata a rispondere in maniera eloquente sulla sua definizione della scrittura in relazione ad alcuni scrittori celebri, Marguerite Duras si lasciò andare ad alcune considerazioni taglienti nei confronti di Jean-Paul Sartre, il quale, secondo Duras: “n’a pas écrit”. Piuttosto: “Il a toujours eu des soucis annexes, des soucis en second, de secondes mains. Il n’a jamais affronté l’écriture pure. C’est un moraliste, Sartre. Il a toujours puisé dans la société, dans une espèce d’environnement de lui. Un environnement politique, littéraire.”; al contrario, continuava Duras: “Je dirais que Maurice Blanchot écrit, Georges Bataille a écrit… […] Il y a des gens qui croient écrire, et puis des gens qui écrivent. C'est rare, c'est très rare”. Certamente, l’idea di una scrittura pura, che non scendesse, in un certo senso, a compromessi con finalità a essa esterne – una scrittura, in certo senso, sovrana – ha rappresentato la maggior preoccupazione di alcuni movimenti letterari del secolo scorso – penso al Nouveau Roman, cui Duras fu brevemente accostata per taluni aspetti, salvo considerarsi sempre separata da qualsiasi scuola in senso stretto -, movimenti orientati in senso avanguardista e vogliosi d’operare una rottura all’interno del mondo letterario della propria contemporaneità. Queste preoccupazioni, oggi, ci sembrano lontane dalle nostre esigenze attuali, anche letterarie: è difficile, in questo senso, individuare qualcuno che scriva o abbia scritto, nel senso dato da Marguerite Duras a questa espressione. Uno dei pochi nomi che mi sovviene, in realtà, contraddice perfino l’indicazione della grande scrittrice francese, avendo lavorato per tutta una vita a una letteratura che non solo fosse calata all’interno della realtà sociale e politica, ma che avesse esattamente come soggetto la descrizione quasi sociologica della realtà sociale e politica: sto parlando di Annie Ernaux, vincitrice, nel 2022, del premio Nobel per la letteratura – nonché una delle più brillanti scrittrici viventi.

 

Ci dà la possibilità di riflettere sulla scrittura di Annie Ernaux la pubblicazione italiana di un dialogo virtuale dell’autrice con lo scrittore Frédéric-Yves Jeannet, un dialogo di circa vent’anni fa, un dialogo che consente di penetrare all’interno del laboratorio letterario della scrittrice, permettendoci di dare uno sguardo all’ “esame di coscienza letteraria” di una delle più importanti voci della nostra epoca. Il lavoro sulla scrittura compiuto da Ernaux è quasi unico nel suo genere e, nonostante il suo essersi imposta, nel corso del tempo, specialmente in Francia, come un classico moderno, offre il fianco ancora oggi a numerose critiche, le quali quasi sempre rimangono sulla superficie del testo letterario, senza mai operare quello slittamento che consentirebbe di osservare quello che Jacqueline Risset ha chiamato “l’istante prima della scrittura”, l’istante in cui sono in gioco ulteriori possibilità, le quali andranno successivamente a dar vita a quella possibilità realizzata che è il testo stesso. Questo volume colma questo iato e ci consente appunto di afferrare per un momento l’istante prima della scrittura di Annie Ernaux, l’istante nel quale quella scrittura si compie. Così Ernaux afferma: “Prima di scrivere, per me, non c’è nulla, solo una materia informe, ricordi, visioni, sentimenti eccetera. Tutta la sfida consiste nel trovare le parole e le frasi più giuste, quelle che faranno esistere le cose, che le faranno ‘vedere’ dimenticandosi delle parole stesse. Altrimenti detto: nello scrivere con quella che sento essere una scrittura del reale”; in riferimento al consolidarsi di questo stile nel libro Il Posto, la scrittrice aggiunge: “quel libro ha inaugurato una postura di scrittura, che mantengo tuttora: un’esplorazione della realtà esterna o interna, dell’intimo e del sociale in un unico movimento che si colloca al di fuori della finzione. E la scrittura che utilizzo […] è parte integrante di questa ricerca. La sento come il coltello, quasi l’arma, di cui ho bisogno” (Annie Ernaux – Frédéric-Yves Jeannet, La scrittura come un coltello, L’orma editore, Roma, 2024, pp. 33-34).

 

C’è da dire che questa “postura”, dalla quale è bandito ogni ricorso all’enfasi, al lirismo, “scrittura piatta” – come la stessa Ernaux la definisce -, scrittura dell’essenziale, attinta dalla banalità priva di sfumature del quotidiano, scrittura diaristica – anche allorquando non è il diario la forma in cui essa è espressa -, cronachistica seppur correlata alla dimensione ampia della storia, ha a che fare con uno sviluppo forse imprevisto della sincerité tipica di una certa letteratura francese, dell’espressione fedele dei propri sentimenti, delle proprie emozioni su pagina. In quella che è stata definita come un’etnologia del sé, il discorso autobiografico – che domina come tema le pagine dei libri di Ernaux – non è la ricostruzione retrospettiva di un vissuto individuale, ma una sorta di dissoluzione del sé all’interno di un mondo nel quale la propria, singolare, esperienza è offerta come dono a qualcun altro che co-abita, partecipa al medesimo mondo, seppur da una differente prospettiva. Ernaux dichiara, con tono solenne: “percepisco la scrittura come una transustanziazione, come la trasformazione di ciò che appartiene al vissuto, a ‘me’, in qualcosa che esiste completamente al di fuori della mia persona. Qualcosa appartenente a un ordine immateriale e che proprio per questo gli altri sono in grado di assimilare, di comprendere, proprio nel senso etimologico di ‘prendere’, afferrare” (p. 104). Ciò è però possibile solamente a patto di rifiutare qualsiasi finzione nel racconto: ciò che appartiene all’autobiografia deve essere espresso secondo una sincerità pressoché assoluta, scevra persino dall’elemento letterario che consentirebbe di mantenere una direzione soggettiva dell’esperienza narrata. È questo un importante paradosso di questa “postura”: laddove ci s’attenderebbe un’immersione all’interno della soggettività, uno scivolare nell’interiorità, si trova invece una scrittura che tenta di mantenersi il più possibile fedele all’oggettività della memoria – qualora se ne possa dare una. È come se il racconto oggettivo della realtà, il più possibile adeguato a descrivere le cose per come sono state, nascesse da una voragine e questa voragine fosse il sé che racconta, dal quale il racconto dipende: se non vi fosse un sé che racconta, il racconto sarebbe a rigore impossibile; ma il racconto è possibile solamente nella misura in cui il sé che racconta sia disposto a liberarsi progressivamente di tutto ciò che, di questo sé, potrebbe inficiare il racconto stesso – perciò, del resto, i libri di Ernaux sono accompagnati da fotografie (specie nel suo capolavoro Gli anni), da riferimenti a canzoni, luoghi, crocevia collettivi, che consentono questa spoliazione del sé in una memoria e, di conseguenza, in una storia a un tempo individuale e condivisa.

 

Non ho il desiderio di portare alla luce le zone d’ombra della mia vita, né di ricordare tutto ciò che mi è accaduto. Il mio passato, di per sé, non mi interessa particolarmente”, insiste Ernaux, “Non mi considero affatto un essere unico, nel senso di assolutamente singolare; piuttosto penso a me stessa come una somma di esperienze, di determinazioni sociali, storiche, sessuali, di linguaggi, continuamente in dialogo con il mondo (passato e presente). […] A volte mi è piaciuto dire: ‘Vivo le cose come chiunque, in modo particolare, ma desiderio scriverle in modo universale” (p.42). Il fatto che questa scrittura sia insieme quanto di più intimo si possa immaginare e allo stesso tempo rimanga fondamentalmente engagée – Ernaux, del resto, si è spesa moltissimo, negli anni, in battaglie civili, sociali, politiche – appare particolare solamente a quella critica superficiale cui ho fatto riferimento inizialmente, giacché “l’intimo era e resta una categoria sociale, poiché un io puro, privo dell’influenza degli altri, delle leggi, della Storia è impensabile” (p. 142).

 

Ciò detto, la distanza fra la scrittura di Ernaux e quella di Marguerite Duras pare infinita; di fatto, si tratta di due scrittrici agli antipodi. È la stessa Ernaux, in effetti, a stupirsi di ogni possibile accostamento con l’autrice de Il Rapimento di Lol V. Stein (pp. 86-87). In una sua pagina, Duras aveva affermato che la scrittura è “l’ignoto di sé, della propria mente, del proprio corpo. Non è neppure una riflessione, scrivere, è una facoltà che si ha al di fuori di noi, parallelamente a noi, di un altro che appare e si fa avanti, invisibile, dotato di pensiero, d’ira, e che talvolta, per questo stesso motivo, è in pericolo di rimetterci la vita” (Marguerite Duras, Scrivere, Feltrinelli, Milano, 1994, pp. 43-44). In tal senso, la scrittura è evocata come una qualche esposizione al fuori e, in questo suo aspetto, essa secerne un pericolo; in uno dei suoi libri più belli, Perdersi, Annie Ernaux conclude ricordando “il bisogno che ho di scrivere qualcosa di pericoloso per me, come la porta di una cantina che si apre, nella quale si deve entrare a tutti i costi” (Annie Ernaux, Perdersi, L’orma editore, Roma, 2023, p. 247). La scrittura è pericolosa poiché colui che scrive, nell’atto stesso di scrivere, si consegna volontariamente alla chance che consiste nell’essere, mentre scrive, a sua volta scritto dalla sua stessa scrittura. La scrittura è, in questo senso, un raro esempio di possessione depossessiva: Duras l’ha sperimentata certamente attraverso l’incantesimo del ritmo, attraverso la faticosa costruzione di un mondo poetico nel quale fosse possibile scomparire. Ernaux, addirittura, ha raggiunto la medesima dimensione attraverso un realismo estremo, estremamente prosaico. Difficile individuare qualcuno che vada, oggi, in questa stessa direzione: penso forse al solo Édouard Louis, alla cui scrittura si può riconoscere uno sforzo di questo genere. Scrivere, per Annie Ernaux, è varcare la soglia di quella porta di cantina aperta sul buio, accettando il rischio di perdersi per restituire agli altri un frammento di verità spogliata di finzione. È abbandono e pericolo insieme: farsi scrivere dalla scrittura stessa. E quando questo accade, lo si riconosce. Annie Ernaux ha scritto. E continua a farlo.

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