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Smitizzare (per redimere) la Sicilia. Percorsi di rielaborazione
Vincenzo Scalia

15.02.2025

 

I palermitani che se ne vanno (incluso chi scrive), non smettono di porsi due domande: perché ce ne siamo dovuti andare? Perché la mafia è un fenomeno siciliano? Due domande a cui si tenta di rispondere, molto spesso, attingendo ad un bagagliaio datato e logoro, che attinge al Tomasi di Lampedusa del “cambiare tutto per non cambiare niente”, allo Sciascia della linea della palma, della Sicilia irredimibile, della sicilitudine. Nel caso di Sciascia, bisogna precisare, non si coglie sempre la portata provocatoria delle dichiarazioni dello scrittore racalmutese.

 

In altre parole, essere siciliani, consisterebbe nel possedere di peculiarità culturali così sclerotizzate da rendere impossibile ogni cambiamento, e da favorire il formarsi di un immobilismo e un desiderio di morte da cui la mafia scaturirebbe come una conseguenza naturale. La cultura, in questa visione, finisce per assumere una connotazione naturale, secondo uno schema che si pone al di qua di Rousseau e Levi Strauss, che valgono dappertutto, ma non in Sicilia. Non ci si accorge che così si finisce per tirare acqua al mulino positivista, all’impostazione lombrosiana che vedeva i Siciliani e i meridionali naturalmente predisposti all’atavismo e recalcitranti a cambiare. Due libri scritti a distanza di cinque anni mostrano quanto questa impostazione sia lontana dal deperire. La mia intenzione è quella di proporre un percorso di uscita dal percorso lampedusian-sciasciano, per laicizzare la Sicilia, e potere finalmente liberare dalle secche delle rappresentazioni tradizionali.

 

Piero Melati, nel suo La notte della civetta (Nottetempo, Roma, 2020), cerca, a distanza di anni, di ricostruire l’epoca dei morti di eroina e degli splendori di Cosa Nostra a Palermo, che coincidevano col suo lavoro di cronista del quotidiano palermitano L’Ora, che costituì, fino alla sua chiusura del 1992, il punto di riferimento per i palermitani che cercavano un contraltare. Melati scrive col cuore: le pagine trasudano la sua emozione e la sua rabbia per gli amici morti di overdose, per la sua generazione bruciata dall’eroina. Gli stessi sentimenti trapelano quando parla del commissario Ninni Cassarà, e dei morti, troppi, che ha incontrato nella sua professione di cronista. L’autore disporrebbe di tutti gli strumenti, documentali e culturali, per prendere le distanze da quelle tragiche vicende, per elaborarle, favorito anche dalla distanza, dal momento che da anni vive a Roma. Eppure sceglie di non farlo, rifugiandosi nelle spiegazioni mainstream, in cui i conflitti in cui restarono intruppati Falcone e Cassarà, lo scetticismo di Sciascia, sarebbero il frutto dell’irredimibilità, della tendenza all’impostura, all’annacquamento, tipico dell’essere siciliani. Un aspetto che affiora anche nel libro di Roberto Andò, Il coccodrillo di Palermo (La Nave di Teseo, 2025). Tornando a Melati, ancora una volta viene tirata in ballo la questione delle confraternite religiose, la cui diffusione in Sicilia testimonierebbe l’esistenza di una naturale propensione alla mafia.

 

La Sicilia, in ultima analisi, sarebbe la negazione della modernità, allo stesso tempo terminale e punto nodale della produzione e circolazione di modelli e di strutture criminali in giro per il mondo, come mostrerebbero l’ammirazione proclamata di Escobar per Totò Riina e i legami di Cosa Nostra coi trafficanti asiatici. Una lettura che ha molte falle, ma che allo stesso tempo, volendo, fa leva sulla necessità di mantenere a tutti i costi qualche elemento originale della sicilianità, adesso che non siamo più sotto i riflettori di tutto il mondo.

 

E’ vero, Sciascia esagerò sui professionisti dell’antimafia, il maxiprocesso fu avversato da molti, l’operato della magistratura e delle forze dell’ordine non trovarono tutti concordi. Ma lo diciamo ora, 32 anni dopo le bombe di Capaci e via D’Amelio, 41 anni dopo le dichiarazioni di Buscetta. Melati dimentica che maxi-processi alla mafia non ne erano mai stati fatti, che il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso venne introdotto soltanto nel 1982, che l’esistenza della mafia venne sancita nella sentenza della Cassazione di 10 anni dopo.

 

Un po’ di scetticismo, di realismo, alla luce di quello che era successo nei 120 anni precedenti di unità nazionale, era lecito averlo. Come era lecito che Sciascia si ponesse il dubbio sull’improvviso scoprirsi anti-mafiosi da parte di troppi attori, singoli e collettivi, che fino a pochi anni prima negavano anche la mera esistenza del problema, mentre di colpo la mafia si affermava come genere pop a colpi di serie televisive, presunte inchieste giornalistiche, talk show. Certo, il bersaglio, Paolo Borsellino, era sbagliato, ma il problema era legittimo, ancorché sacrosanto. Basti per tutti l’esempio delle scienze sociali, col piemontese Diego Gambetta, teorico della scelta razionale operante ad Oxford, che in quegli anni, sull’onda della mafiologia imperante, pubblicò il suo La mafia siciliana  (Einaudi, 1992). Un libro infelice, fuori fuoco, che applica pedissequamente la rational choice, che già funziona poco negli altri contesti, alla Sicilia, contrabbandando una conoscenza sul campo che non c’è proprio. Se sbaglia un professore di Oxford, perché non possono sbagliare magistrati e poliziotti? Specialmente in un periodo magmatico, confuso, in cui di colpo saltavano gli schemi e gli equilibri pre-costituiti.

 

In secondo luogo, Sciascia aveva ragione a preoccuparsi dei pestaggi che avvenivano alla procura di Palermo. Se è vero che le forze dell’ordine sono in prima linea, e che perdono spesso dei colleghi in azione, è altrettanto fondato affermare che gli apparati dello Stato sono l’interfaccia di un ordinamento democratico e di diritto, che non coltiva la vendetta.

 

Soprattutto, in un paese come l’Italia, che dal dopoguerra in poi ha fatto dell’ emergenzialismo la principale leva di legittimazione dello Stato, senza mai risolvere le emergenze, presunte o reali, che evocava, non si può stare acriticamente da una parte. Insomma, si può essere anti-mafiosi pur adottando punti di vista diversi, che magari confliggono, si confrontano, ma possono ricomporsi. L’unanimismo, inoltre, rischia di impoverire la conoscenza approfondita dei problemi, e di creare, come poi è successo, apparati e attori autoreferenziali, per i quali l’antimafia diventa poco più di un marchio di fabbrica.

 

In secondo luogo, di eroina non si moriva soltanto in Sicilia, e nel traffico non erano coinvolti solo siciliani. Prima la commercializzavano i marsigliesi, poi, alla caduta del muro, gli equilibri sono cambiati. Tanto che ormai si parla di mafie, e si aggiunge alle nuove organizzazioni l’attributo nazionale o regionale: calabrese, russa, kosovara, messicana…Ma soprattutto, non si capisce perché dovrebbero avere imparato tutti da Cosa Nostra. I contesti originari, le strutture di opportunità, le configurazioni organizzative, sono diverse. Per dire, i narcos messicani hanno i loro loghi, li pubblicizzano, e mostrano i video delle esecuzioni su YouTube. Tutte cose che Cosa Nostra non ha mai fatto. Dove sarebbe la trasmissione di saperi?

 

Quanto alle confraternite, sono diffuse tra la borghesia europea e nordamericana. Pensiamo alla massoneria, alle fraternities statunitensi dei college di élite. Anche loro hanno una propensione alla mafiosità? In fondo sì, visto che le mafie prosperano, come insegnava Vincenzo Ruggiero, solo se hanno un intreccio profondo col potere politico ed economico ufficiale. Qualcosa a cui Melati accenna alla fine del suo libro, a cui Andò fa riferimento costantemente, mettendo in evidenza la promiscuità dei rapporti che caratterizza la borghesia palermitana, per cui i figli dei mafiosi e quelli dei magistrati antimafia affollavano le feste della jeunesse dorée palermitana negli anni 80.

 

Le risposte, verrebbe da dire, sono molto semplici. La mafia è nata in Sicilia come braccio armato del potere dei latifondisti, per poi trarre vantaggio dal capitale materiale e simbolico accumulati. Solo che, le lotte intestine, la mobilitazione sociale, la caduta del Muro (che ne ha inficiato il ruolo strategico), la globalizzazione, hanno finito per ridimensionarla.

 

Perché ce ne siamo andati? Perché non ci piaceva tutto questo. Come gli Irlandesi se ne andarono per fuggire alle ingiustizie prodotte dalla dominazione inglese. E gli Ebrei scapparono dai pogrom zaristi. Entrambi i popoli lo hanno accettato. E ne fanno uno dei loro punti di forza. Semmai è da chiederci, perché noi siciliani, palermitani, no? Forse perché siamo nati e cresciuti in una terra che è ricca di paesaggi, monumenti, storia, e ci saremmo voluti rimanere. Ma non abbiamo voluto. Peccato, ma giusto così. Però, per cortesia, basta con Tomasi di Lombrodusa, se mi si consente questa sintesi.

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