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Sul rompicapo. A proposito di Walter Benjamin
Ubaldo Fadini

15.03.2025

 

La lettura (e la presentazione bolognese, coordinata da Igor Pelgreffi, alla libreria “Modo”) del libro fondamentale di Erdmut Wizisla, Benjamin e Brecht. Storia di un'amicizia, traduzione e introduzione di Fabio Tolledi, Kaiak Edizioni, Napoli 2024, mi ha stimolato a riprendere in considerazione alcune questioni “classiche” della ricezione benjaminiana, della Benjamin-Forschung, soprattutto incentrate sul confronto a volte impervio con un percorso teorico complesso e non concluso, per più motivi; le difficoltà che ne scaturiscono hanno infatti contribuito a conferire al testo benjaminiano, in generale, una sorta di “aura” , una “fascia auratica”, la cui “dissoluzione” costituisce la premessa essenziale per tentare di non consegnare l'impresa conoscitiva soltanto alla dimensione del frammentario.

 

In tale ottica voglio riprendere una mia vecchia “tesi” nella quale l'attenzione al libro sul dramma barocco tedesco fu provocata proprio dal bisogno di evitare un luogo comune della letteratura secondaria, nobilitato solo in parte dall'autorità di studiosi e amici come Gershom Scholem e Theodor Wiesengrund Adorno, quello dei “due Benjamin”, uno profondamente legato alla lezione della mistica ebraica e della filosofia linguistica della Romantik, l'altro pesantemente influenzato dal determinismo proprio di un materialismo “stupito della fatticità” e su questa appiattito.

 

Tale lettura/interpretazione ha avuto in ogni caso un merito indubbio, a mio parere, quello di assumere dei dati, il momento “teologico” e il momento “materialista” della ricerca del filosofo berlinese che invitano a porre il problema della loro sintesi, a produrre una situazione che nei termini di una certa filosofia della scienza (si veda esemplificativamente Thomas Kuhn) si definisce come rompicapo. È di fronte a quest'ultimo che la Benjamin-Forschung ha cercato di operare nel senso di un approfondimento dell'analisi dei dati del problema che ha conseguito accanto a dei risultati indubbiamente notevoli degli effetti di “cristallizzazione” del rompicapo medesimo, una opposta e complementare estremizzazione dell'analisi che ha ridotto da un lato la pluralità anche contraddittoria del testo benjaminiano a una serie di categorie valutative di matrice unicamente metafisica e teologica, dall'altro ha comportato il rifiuto, nell'assolutizzazione delle tematiche emerse dopo la “svolta” dell'indagine degli anni venti in direzione del materialismo storico, di ritenere degna d'interesse critico la “prima” speculazione benjaminiana sul linguaggio (considerata nel suo presentarsi come singolare “filosofia del nome”).

 

Nella mia riflessione l'approccio al percorso complessivo sviluppato da Benjamin non può risolversi semplicemente nell'approfondimento dei singoli termini del rompicapo, inteso come ciò che può consentire la sua soluzione, ma deve invece articolarsi andando ad investire l'opposizione che lo costituisce. In tale ottica, il rischio della critica vale come una proposta interpretativa che va a sottolineare la rottura, annunciata nella fase “teologica” dell'itinerario benjaminiano, tra il nome e la cosa, tra il divino e il mondano, per seguirne le variazioni/trasformazioni nel Trauerspielbuch, nel testo sul dramma barocco, laddove tale rottura si afferma come l'origine del nostro essere nella storia, nel tempo povero degli avvenimenti che la parzialità dei linguaggi, la caducità non redimibile dei segni, concretamente esprime. In breve, l'effetto decisivo della “rottura” (di carattere certamente “metafisico”), della perdita del nome, si determina soprattutto nella rilevazione della dimensione allegorica del linguaggio come espressione/esposizione della conflittualità irriducibile del mondano.

 

Tutto ciò stimolò a suo tempo l'attenzione nei confronti del mio tentativo da parte di Ferruccio Masini, vale a dire la conseguente indicazione del manifestarsi molteplice, variegato, all'interno del percorso benjaminiano di una tensione verso la potenzialità di qualcosa d'incognito collocato “al di là” del piano della mera discorsività, del linguaggio pure pacificato nella modalità del dialogo, del colloquio (quando capita...); tale incognita, che assume sempre di più i contorni propri, a livello di sua ricaduta nel concreto, di una “perdita dell'esperienza”, viene ad essere parzialmente afferrata/compresa, attraverso l'analisi del Trauerspiel tedesco, nello svolgersi di una critica materialista delle formazioni socio-culturali di un mondo che vede l'affermarsi dell'incerto, di una Unsicherheit di fondo, effetto di una conflittualità/contraddittorietà inconciliabile/insuperabile afferrabile con l'impiego decisivo, tra l'altro, di categorie e strumenti di derivazione marxiana.

 

Ho ricordato l'interesse e la partecipazione di Masini all'articolarsi di tale mio tentativo. Ne restituisco di seguito alcuni dei tratti sempre per me più significativi. In primo luogo l'attenzione alla Namenstheologie e alla produzione allegorica, con il conseguente uso critico della crisi, di ciò che rinvia al motivo della “rottura”. In tale ottica, il problema del rompicapo si rivela inessenziale: non è in fondo un “problema”... appare in questa forma soltanto in un modo riduttivo e per niente “decostruttivo” di sviluppare l'indagine, non in grado di apprezzare il pluralismo degli approcci stimolato dalla stessa rilevazione della creatività indomabile della potenza della incognita che alimenta lo sforzo critico della ricerca benjaminiana. Certamente quest'ultima può essere in parte abbracciata anche prestando attenzione a un pensiero delle trasformazioni delle semantiche-chiave del moderno che ha in sé in posizione non secondaria la componente teologica e messianica, ma in tale concettualizzazione, declinata sempre al plurale, si mantiene ben presente il tema della differenza, meglio: della dinamica della differenziazione incessante (ed è su questo piano che può avere un qualche senso cercare di avvicinare alcuni elementi del cosiddetto “pensiero della differenza”, tra Michel Foucault e Jacques Derrida, non dimenticando la particolare “simpatia” manifestata nei confronti del filosofo tedesco da Gilles Deleuze nel suo libro su Leibniz).

 

Ciò che comunque vale la pena di rimarcare in tale direzione è il riproporsi di una domanda, da parte dello studioso fiorentino, che non smette di inquietare la mia raffigurazione del pensiero benjaminiano, quella sopra delineata a mo' di schizzo concettuale: Benjamin riuscirebbe cioè a non risultare dialettico in modo scolastico-dogmatico proprio nel momento in cui fa sua la dialettica materialista? E in conclusione, rispetto a tale interrogativo, mi sembra utile riportare alcuni passi di una sua lettera a Max Rychner del 7 marzo 1931 (inviata poi in copia anche a Scholem): “Ora questo libro (Il dramma barocco tedesco), pur essendo già dialettico, non era certamente materialistico. Ma ciò che non sapevo ancora all'epoca in cui lo stavo scrivendo, poco dopo mi è divenuto sempre più che chiaro: che tra il mio punto di vista molto particolare di filosofo del linguaggio e il modo di vedere del materialismo dialettico sussiste una mediazione per quanto tesa e problematica. Con la saturazione della scienza borghese invece non ne sussiste nessuna”. E subito dopo, nella stessa lettera, Benjamin indica come sarebbe possibile vedere in lui non “un rappresentante del materialismo dialettico come dogma, bensì un ricercatore al quale l'atteggiamento del materialista appare scientificamente e umanamente più fruttuoso di quello idealistico in tutte le cose che ci muovono. Per esprimermi in una formula molto sintetica: non sono mai riuscito a studiare e a pensare altrimenti che in un senso che potrei definire teologico – ossia in conformità con la dottrina talmudista dei quarantanove livelli di significato di ogni passo della Toràh. Orbene: l'esperienza mi insegna che la più logora delle banalità comuniste ha più gerarchie di significato che l'odierna profondità borghese, che ha sempre soltanto quello dell'apologetica” (Walter Benjamin, Lettere 1913-1940, raccolte e presentate da G. G. Scholem e T. W. Adorno, tr, di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1978, pp.192-193).

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