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Umanamente insostenibile.
Il capitalismo nuoce gravemente ai Sapiens
Luigi D'Elia, Nora Sophie Nicolaus

26.01.2025
Il testo che presentiamo è l'Introduzione al volume di  Luigi D'Elia, Nora Sophie Nicolaus, Umanamente insostenibile. Il capitalismo nuoce gravemente ai Sapiens, edito da Meltemi.



 

Introduzione

1. L’amore di specie

Esistono libri nei quali si racconta del nesso causale tra capitalismo e salute mentale precaria e altri libri nei quali si documenta di come il capitalismo, sistema ciecamente espansivo e sfruttante in sé, stia distruggendo l’ecosistema del quale la nostra specie è parte.

Questo libro intende svolgere e, se possibile, ampliare la medesima linea di ricerca, ma utilizzando un vertice osservativo inedito e augurabilmente originale. Intende cioè indagare il rapporto tra la storia evolutiva dell’umanità, il capitalismo e le sue conseguenze, nocive, sulla salute psicologica dei sapiens. Per approfondire tale incrocio vogliamo far incontrare il soggetto contemporaneo, inteso estensivamente come sapiens, e il suo repertorio evolutivo con l’attuale sistema che ne regola la vita e che lo conduce sull’orlo del baratro.

La specie sapiens, comparsa presumibilmente circa 200.000 anni fa in Africa, solo circa 8000 generazioni fa (sebbene alcune ipotesi ne facciano precedere a 300.000 anni fa la comparsa), è l’ultimo cespuglio, unico sopravvissuto, della famiglia degli ominini, i cui più antichi progenitori (Homo habilis) risalgono a circa 2,5 milioni di anni fa, a loro volta discendenti da altri progenitori comuni dell’ordine dei primati molto più antichi e scimmieschi. Tralasciando i progenitori arcaici, è esattamente con sapiens e solo con lui che vogliamo dialogare, con il suo repertorio di dotazioni originarie, con i meccanismi di adattamento della sua mente ancora in parte paleolitica, con le sue strutturali ambivalenze, con il suo bricolage evolutivo1 (così imperfetto e recente, ma anche così straordinario e promettente). E infine dialogheremo con sapiens come soggetto alle prese con l’ultima sua religione universalistica e le sue leggi implicite ed esplicite, il capitalismo, il più compiuto e stabile sistema di prescrizioni della realtà mai immaginato prima.

Tale scelta di campo, così radicale, che fa interagire storia evolutiva e capitalismo, intende far proprio fin da principio un approccio transdisciplinare, secondo cui per condurre ipotesi di studio sull’uomo non si deve lasciare fuori alcun osservatorio specialistico.

Siamo convinti, di converso, che uno dei principali fattori che ostacola il salto di coscienza che occorrerebbe in questa fase storica all’umanità per correggere l’evidente tendenza all’autoestinzione consista nell’esattamente nell’assenza di percezione, di appartenenza, di amore di specie. Nella mancanza cioè di percezione e consapevolezza diffusa di trovarci sulla stessa barca tutti insieme, senza distinzioni di potere, intelligenza, prestigio o ricchezza, accomunati da una stretta parentela testimoniata da una scarsa variabilità genetica, prova certa di precedenti pericoli di estinzione (i noti colli di bottiglia) causati da improvvisi cali demografici, superati, chissà come, nel lontano passato paleolitico.

In buona sostanza la fratellanza di specie è, prima ancora che un dato spirituale o filosofico, un dato biologico autoevidente. Una forma di amor proprio diffuso, insomma, ma anche un dato di elementare razionalità: o pensiamo di farcela come specie o affondiamo tutti insieme. Tertium non datur. E tutto ciò sia perché siamo portatori di una forte tendenza potenziale all’auto-estinzione, unica specie con tale propensione, sia perché il patto implicito che ci lega al mondo non umano, climatico, geologico, vegetale e animale (che tutto assieme costituisce l’ecosistema in cui siamo ospiti), ci vede per molti versi, come spiegheremo nel corso di questa nostra esplorazione, estranei ed estraniati.

Accanto a questa mancanza di percezione e di amore di specie, ci sembra che manchi quasi del tutto nel dibattito pubblico uno sguardo abbastanza ampio e coraggioso che osi tenere assieme e collegare in maniera sistemica e longitudinale, con la forza consapevolmente umile degli argomenti scientifici e filosofici, le variabili di rischio dentro le quali l’attuale civiltà ci costringe a muoverci. Tra questi fattori di rischio, come vedremo nel corso del libro, lo iato tra la velocità della tecnosfera e la lentezza evolutiva, soprattutto a carico di alcuni processi mentali e, di contro, l’altissima assimilazione introiettiva dei codici sociali di adeguatezza per chiunque di noi. Esito di questi processi è l’ultimo fattore di rischio il cui volume sembra vertiginosamente aumentare fino quasi ad assordare: la salute mentale dei singoli e della specie nel suo complesso, in evidente caduta verticale da alcuni anni a questa parte.

Convocare il piano di specie e dialogare direttamente con il sapiens ci sembra uno dei modi possibili (secondo noi il più radicale che possiamo immaginare) per svelare alcune incongruenze dei nostri più comuni stili di vita, i quali, seppur evidenti agli studiosi, risultano ai più ancora troppo poco visualizzabili e mentalizzabili. Risulta infatti ancora mediamente laborioso connettere i seguenti tre piani osservativi: gli innumerevoli bug di sistema dell’attuale organizzazione politico-economica del mondo; le problematiche più comuni dei nostri stili di vita; e infine la nostra salute psicologica. Il tutto sullo sfondo della nostra, pur breve, storia evolutiva. In questo saggio proveremo a razionalizzare questi nessi con un percorso concettuale il più possibile coerente.

Utilizzare, come qui proviamo a fare, un approccio transdisciplinare, che attraversi i paradigmi della biologia e della psicologia evoluzionistica e contemporaneamente metta assieme visioni sociologiche, psicosociali e filosofiche, ci è sembrata un’operazione assolutamente lineare. Lo sguardo transdisciplinare e grandangolare che qui abbiamo utilizzato ha fatto dialogare all’unisono tutti gli iperoggetti (Morton 2013) che abbiamo convocato a parlarci di questo presente. Evoluzione, epigenetica, costruzione di nicchia, cooptazione funzionale, corpo, mente, capitalismo, salute mentale, riscaldamento globale, bias cognitivi e altri costrutti ancora sono qui diventati altri iperoggetti da confrontare l’uno con l’altro, prospetticamente, senza confonderli, come dei puntini da unire con una matita per cominciare a intravedere in filigrana il profilo di un disegno forse non ancora perfettamente delineato, ma già ben riconoscibile nella sua palese insostenibilità.

Abbiamo dovuto però superare, nel corso di questa stesura, alcuni divieti interni (alle nostre culture e formazioni) e facili semplificazioni, che ci impedivano di addentrarci in territori concettualmente troppo impervi, come ad esempio poter parlare, con la necessaria cautela, di aspetti della natura umana senza sentirci dei reazionari che usano l’aggettivazione “naturale” come un randello insensato e violento o come elemento di certificazione e normalizzazione del comportamento umano; o rischiare di essere confusi con sostenitori di idee psicobiologistiche (nulla di più lontano dalle nostre posizioni), di essere facilmente fraintesi come gli ultimi catastrofisti del momento2 o di essere presi per intransigenti dogmatici; e infine rischiare di essere messi con le spalle al muro da una forma di accademismo autoreferenziale, che nelle sue versioni più integraliste vorrebbe limitare la potenza di ragionamento in nome di una scientificità di settore. Un approccio liberamente transdisciplinare tende a chiamare per nome le cose come si manifestano nelle nuove griglie osservative e interpretative in cui sono inserite, utilizzando magari nuove utili metafore, ma senza troppi giri di parole. E a tal proposito…

2. Vecchio stupido capitalista, non ti salverai

In un mondo così strutturalmente (e sempre più) diseguale quale è il nostro presente, sembra essersi consolidata l’idea, totalmente infondata, che i destini della nostra specie riproducano le stesse logiche delle disuguaglianze che hanno caratterizzato la storia dell’umanità e, di conseguenza, sembra passare l’idea che chi si trova nella ristrettissima minoranza dei più ricchi e potenti del mondo possa sfuggire in futuro in qualche magico modo alla follia autodistruttiva di questa ultima parte della storia. Ma morte, follia e disagio esistenziale, diversamente da quanto confabulino i codici del neoliberismo più sfrenato, hanno una caratteristica in comune: sono irrimediabilmente orizzontali e non risparmiano proprio nessuno.

Non a caso spesso la fantascienza cinematografica immagina e ripropone con una certa regolarità3 trame di mondi prossimi futuri dove le élites ricche o geneticamente selezionate vivono separate o su un altro pianeta meraviglioso e felice, lasciando a tutti gli altri il mondo in rovina.

Queste trame sono figlie di una lettura parossistica del presente e del passato per la quale le diseguaglianze appaiono fatali e provvidenziali. Ma quale stolto può mai credere alle possibilità realistiche di sviluppi del genere? Dove possono mai scappare le élites se, come prevedibile, entro pochi decenni o secoli si assisterà alla fine o, in subordine, all’erosione drastica dei confini del mondo fin qui conosciuto?

finirà il lavoro,

collasseranno i mercati,

finirà il reddito,

finiranno i consumi,

si esaurirà il consenso,

finiranno le tecnologie salvifiche,

finirà la fertilità maschile,

finirà l’ecosistema come l’abbiamo abitato fino a ieri,

finirà la biodiversità,

finirà l’acqua potabile e d’irrigazione,

le temperature aumenteranno di 4-5 gradi, l’Europa e l’America del Nord diventeranno zone subtropicali e desertiche,

i migranti climatici saranno centinaia di milioni,

le diseguaglianze produrranno guerre e sommosse di proporzioni oceaniche.

Le élites non scapperebbero da nessuna parte, affonderemmo certamente tutti assieme, e senza scialuppe.

Questa consapevolezza non costituisce alcuna consolazione, tutt’altro: sapere che gli uomini più ricchi e potenti possano condividere la livella della condizione umana non ci fornisce alcuna soddisfazione, casomai aumenta lo sconforto. Sapere di essere governati da uomini e donne incapaci di ogni previsionalità e arroccati nei loro fortini mondani irradia una sensazione di impotenza. E neanche l’evidente rovina delle loro personalissime vite private costituisce per loro motivo di autocorrezione. Non è possibile attendersi nessuna folgorazione sulla via di Damasco da chi è totalmente intriso nelle logiche di potere. Del resto, è un dato acquisito dalla storia e dalle scienze: sono state già tante le civiltà del passato che sono scomparse travolte da meccanismi autodistruttivi che sono risultati ingovernabili (Pievani 2012, pp. 100-105).

Di fronte a una miopia così strutturata e inemendabile (ne parleremo nel capitolo 3), non esiste al momento alcun argine di razionalità che tenga e al contempo non esiste differenza di potere e di ricchezza che garantisca alcun privilegio salvifico contro l’ineluttabilità di una fine ancora ampiamente evitabile.

Questo libro vuole annunciare a tutti, ma proprio a tutti, che mai come in questa epoca storica la nostra specie, i sapiens, dopo i colli di bottiglia e la prossimità all’estinzione sperimentata forse più volte in epoca paleolitica per probabili motivi ecologici (glaciazioni) e relative e improvvise scarsità demografiche (come evidenziano alcune ricerche paleogenetiche), oggi si ritrova nuovamente di fronte al rischio di estinzione, ma per motivi totalmente differenti da quelli del remoto passato. Il motivo è totalmente inedito e si chiama tendenza all’autoestinzione. In altri termini: scacco cognitivo, impensabilità del futuro, assenza di previsionalità, assenza di pensiero ecologico sistemico e complesso, assenza di programmazione politica a lungo raggio (D’Elia 2014a), assenza di capacità di coordinamento globale delle crisi, incapacità di immaginare scenari virtuosi prossimi, incapacità di stabilire un nuovo patto sia con i propri habitat naturali, sia con i propri mondi esistenziali.

In questo libro parliamo di una parabola del capitalismo che non riguarda in nessun modo una sua crisi fatale all’orizzonte di tipo economico o politico, come molti, noi compresi, desidereremmo. Tutt’altro, qui sosteniamo che non è mai esistito nella storia un sistema politico-economico così stabile come il capitalismo con le sue regole, quasi naturalizzate nel vissuto di tutti noi che le subiamo. E su questo il filosofo Byung-Chul Han ci ha ben istruiti (Han 2022). Neanche la crisi del ’29 del secolo scorso e gli anni terrificanti a venire in tutto il mondo occidentale hanno potuto scalfire il dominio ideologico e universalistico del sistema capitalistico, e anche allora le élites trovarono il modo di salvarsi e persino arricchirsi. Il capitalismo, così come si autoregola, si autorigenera e si trasforma senza che venga mai messo seriamente in discussione. Ripropone in ogni crisi epocale con più forza e determinazione le sue regole implicite di radicale disuguaglianza tra uomini e tra popoli e la sua struttura sociale a caste, la sua visione utilitaristica dell’esistenza e la folle idea ciecamente espansionistica e di sfruttamento devastante dell’habitat in cui è prosperato. La sua natura parassitaria è al contempo palingenetica e anti-umana oltre che di odio concreto verso l’ecosistema. Ma questo è solo un corno del problema.

La parabola del capitalismo che tratteremo qui riguarda invece lo stato di salute, mentale ed esistenziale, che ogni cittadino del mondo vive di riflesso alla follia sistemica in cui tale stile di vita ci ha condotto ciecamente. E non parliamo solo dei miliardi di emarginati poveri, o del miliardo ufficiale (dato probabilmente fortemente sottostimato) di disagiati e disturbati psichici, depressi, angosciati, isolati e infelici cronici che tale sistema produce organicamente, ma anche di chi vive illusoriamente comodo nel suo ventre di vacca. L’illusione di vivere meglio o di rimanere invincibili e immortali perché arroccati in quel ventre di vacca sta diventando una credenza sempre più delirante. Questa apparente sicurezza non ci garantisce più alcuna tutela sociale e morire precocemente di solitudine, di depressione e di disperazione sta diventando, anche nel cuore del capitalismo, un evento più che comune (Case, Deaton 2020).

Sarebbe fin troppo facile dimostrare l’infelice condizione umana dei vecchi capitalisti descrivendo lo squallore delle loro biografie, la loro miseria umana. La parabola decadente della condizione umana comincia a essere scritta, e anche ben evidente, nell’involuzione psicopatologica di certi personaggi pubblici negli ultimi decenni della storia. E non parliamo solo dei clamorosi prodotti paranoicali del secolo scorso e di quella storia di devastazioni, sopraffazioni e umiliazioni: Hitler, Stalin e Pol Pot erano molto più che disagiati, ma certamente non erano capitalisti di nascita. Parliamo di tutti i successivi burattini compiacenti che hanno governato, per modo di dire, i paesi occidentali negli ultimi quarant’anni. Personaggi sempre più palesemente disturbati e con intelligenze modeste volte solo in senso utilitaristico, completamente ammalati di potere, perfetti prodotti di un’epoca spettacolistica.

Diciamo tutto questo non certo per sentirci migliori delle élites politico-economiche, e non certo per alcuna reazione revanscista, ma per ribadire qualcosa che tutti gli studiosi sociali hanno compreso da tempo: lo iato incolmabile tra profondità della visione politica media dei nostri leader mondiali, generalmente a cortissimo raggio (tarata sulla prossima elezione), e l’urgente necessità del pianeta e di tutti noi di poter contare su lungimiranza, previsionalità, azioni e decisioni politiche coraggiose e a lungo raggio. L’utile idiota al potere non dissente non disturba i veri manovratori della nave e pensa a incollarsi il più possibile al suo piccolo spazio di potere. Peccato che, mentre lui si trastulla, la nave in questione è in rotta di collisione con una serie di iceberg ben visibili all’orizzonte. Il suo amore di specie e la sua cura per la sua stessa progenie sono prossimi allo zero.

Ecco, in questo saggio avremmo l’ardire di comunicare ai manovratori e a tutti coloro che per qualche strana ragione si sentono immuni dal disagio esistenziale e dalla morte in quanto potenti, o solo in quanto ignoranti, che esistono delle ragioni disevolutive che come specie ci spingono verso l’autoestinzione e che tutti noi in misura diversa ne siamo interpreti (i ricchi e i potenti molto più di noi comuni mortali), e che la buona notizia è che se riusciamo a comprendere che sulla nave affondiamo tutti assieme forse si potrebbe nel prossimo futuro cambiare rotta, possibilmente facendo appello ad altre ragioni, questa volta evolutive, opposte e contrarie, che ci spingono verso la sopravvivenza.

3. Il nostro percorso, in sintesi

Nel capitolo 1 proveremo a comprendere come nelle dotazioni originarie della nostra specie fortune e sfortune evolutive siano del tutto intrecciate e siano contestualmente presenti. Immediatamente dopo argomenteremo come, alla luce delle richieste di adattamento che il sistema capitalistico ci impone, sia diventato improponibile ogni possibile adeguamento a una vita dignitosa. Introdurremo il concetto di invalicabilità bio-psico-sociale di molte nostre caratteristiche di specie ed esploreremo le modalità con cui il capitalismo insulta e calpesta ognuna delle dotazioni di origine della nostra specie.

Nel capitolo 2 esploreremo – attraverso l’applicazione di alcune utili intuizioni della biologia evoluzionistica (in particolare la teoria della costruzione di nicchia ecologica e il concetto di cooptazione funzionale) alle vicende della storia recente – come l’intera specie stia velocemente migrando verso una nuova realtà esistenziale, sempre più virtualizzata e decorporizzata (il riferimento è in particolare al metaverso), le cui conseguenze a carico del soggetto (e anche dell’ecosistema) ci appaiono in parte imprevedibili, in parte prevedibili e nefaste.

Nel capitolo 3 proveremo a comprendere che le transizioni globali, epocali, come questa che l’umanità sta attraversando (ecologiche, psico-collettive) sono di difficile gestione. La mente umana mostra diverse fatiche strutturali nel prevedere e nell’avere esperienza di ciò che non è immediatamente presente, tangibile. Prenderemo in esame il concetto filosofico di “iperoggetto” e proveremo a comprenderne alcuni esiti. Esamineremo più da vicino il nesso tra i codici di adeguatezza sociale, la loro altissima assimilabilità e la precarietà della salute mentale. E infine cercheremo di comprendere alcuni aspetti della distruttività e della pulsione verso la guerra dell’uomo.

Nel capitolo 4 esamineremo le dinamiche culturali della realizzazione individuale in due contesti differenti: la cultura del self-made man americano e l’ikigai tradizionale di Okinawa. Mentre la prima è caratterizzata da un paradigma prevalentemente competitivo e individualista, spesso associato a stress e disgregazione sociale, la seconda promuove la ricerca del talento personale e la realizzazione attraverso ciò che si ama, grazie a un modello sociale cooperativo. Esploreremo inoltre le differenze tra “cultura subita” e “cultura agita”, con il fine di immaginare un possibile contenitore culturale per un approccio glocalista alla gestione delle risorse e delle relazioni tra popolazioni. Un contenitore culturale che possa favorire e sostenere i processi di coesione sociale attivamente e al contempo lasciare spazio alle molteplici espressioni identitarie/narrative delle diverse popolazioni, a partire da un comune e necessario nuovo patto con Gea.

Nelle conclusioni, infine, proveremo a tirare le somme di questo percorso non lineare e non omogeneo portando alcuni dati sullo stato di salute della specie e del pianeta e provando ad aprire a sviluppi futuri.

1 Gould, Vrba 1982 e Pievani 2018 sul concetto centrale di exaptation (cooptazione funzionale), che incontreremo più volte nel testo.

2 O, come direbbe Telmo Pievani (2012), con gli apocalittici perplessi.

3 Si pensi a film come Zardoz, Gattaca ed Elysium, per tutti.

© Luigi D'Elia, Nora Sophie Nicolaus, Umanamente insostenibile. Il capitalismo nuoce gravemente ai Sapiens , Meltemi 2025

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