9e3133ff4409ef51fb65632425aaa2919098a423

Informativa sulla Privacy

Un breve sguardo alla violenza "in nome di Dio"
Elisabetta Giovanna Lapolla La Vista

28/07/2024

 

La violenza è sempre stata presente, nelle sue molteplici manifestazioni, in tutta la storia dell’umanità. Tra le sue cause non bisogna dimenticare la religione, perché si tratta di una dimensione importante e costitutiva, radicata nel profondo dell’essere umano, tanto che il sociologo Thomas Luckmann l’ha definita come un bisogno dell’organismo umano di trascendere la dimensione puramente biologica dell’individuo: «La religione affonda le sue radici in un fondamentale fatto antropologico: il trascendimento della natura biologica da parte degli organismi umani» (T. Luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1976, p. 95)

 

Oltre a ciò, essa rappresenta anche un fondamentale fattore antropologico capace di aggregare i gruppi umani. Il sociologo e filosofo Emile Durkheim ha messo in luce questo ruolo di “integrazione” della società proprio dell’esperienza religiosa: la funzione della religione è quella di rafforzare i legami sociali e la solidarietà sociale, dando così ordine alla società stessa. La religione è, secondo Durkheim, «un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata chiesa, tutti quelli che vi aderiscono» (E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1982³, p. 49).

 

Non esiste una società-sostiene Durkheim- «che non senta il bisogno di conservare e rinsaldare, a intervalli regolari, i sentimenti collettivi e le idee collettive che costituiscono la sua unità e la sua personalità» (Ivi, p. 448).

 

Purtroppo, nel corso della storia è venuta meno questa tendenza “associativa” propria delle religioni che oggi, come nel passato, hanno scatenato, legittimato la violenza ed il suo risvolto più nefasto e distruttivo, ovvero la guerra. Basti pensare alle Crociate, all’Inquisizione, alle evangelizzazioni forzate, all’espulsione di ebrei e musulmani, fino ad arrivare ai giorni nostri. Il XXI secolo si deve, infatti, confrontare con il costante aumento dell’estremismo religioso e della violenza nel nome di Dio che, a partire dagli attacchi alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono dell’11 settembre 2001, non è diminuita, anzi si è verificata una sua preoccupante escalation. Da allora ci siamo abituati a vedere immagini che sembravano relegate nel Medioevo: soldati decapitati, ostaggi fatti a pezzi con accette, popolazioni innocenti massacrate, ragazzine stuprate e vendute come schiave; chiese, sinagoghe, moschee sono state distrutte, luoghi sacri sono stati profanati, cristiani rapiti e crocifissi, intere comunità costrette a lasciare le loro case (J. Sacks, Non nel nome di Dio, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2017, p. 15).

 

Lo studioso Jan Assmann, nel suo contributo Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, distingue tra la violenza sacrificale e la violenza in nome di Dio. La prima è quasi scomparsa dalle religioni universali moderne che, a motivo di ciò, oggi reagiscono con risentimento se accusate di essere intolleranti e propense alla violenza. Nelle religioni antiche o «pagane» qualsiasi violenza, esercitata in nome della religione, era esclusivamente violenza sacrificale: gli animali destinati a essere uccisi (per poi essere mangiati) dovevano essere sacrificati. I sacrifici umani venivano sempre compiuti «in ambito votivo»: gli atzechi, per esempio, sacrificavano i prigionieri al sole per rafforzare l’astro, per mantenere in moto il corso del sole ed evitare sciagure. Il monoteismo biblico, soprattutto quello veterotestamentario, «si è fatto vanto di aver abolito i sacrifici umani», ma questo cambiamento- sostiene Asmann- è riscontrabile anche nelle altre religioni del mondo antico e non sarebbe ascrivibile al monoteismo, ma ad «una metamorfosi generale della cultura religiosa, che a partire dal primo ellenismo iniziò a prendere le distanze persino dai sacrifici animali» (J. Assmann, Non avrai altro Dio. Il Mulino, Bologna 2007, pp. 19-20).

 

L’altro tipo di violenza religiosa è quella che si richiama alla volontà divina che, secondo Assman, si presenta per la prima volta col monoteismo, quello «esclusivo e rivoluzionario», contraddistinto dalla formula «Non avrai altro Dio all’infuori di Dio», un principio che «non ha paralleli né è tendenzialmente insito nelle religioni maggiori» (Ivi, pp. 33).

 

Secondo questa tesi la radice della violenza si spiega «sulla base della forza antagonistica della “distinzione mosaica” tra la vera e la falsa religione, tra il vecchio e il nuovo», «sulla base della cesura radicale» con quanto accaduto prima e «della “conversione” che viene richiesta all’uomo» (Ivi, p. 122).

 

Ampliando la prospettiva di Asmann, potremmo dire, con le parole del filosofo Paul Ricoeur, che «il pericolo della violenza è alla base di ogni convinzione forte» (H. Küng - P. Ricoeur, Il lato oscuro della fede. Religioni, violenza e pace, Medusa Edizioni, Milano 2021, p. 18): esso è insito in particolare, quasi fosse una sorta di germe inevitabile, nella missione stessa di quelle confessioni nate per diffondere una Parola che le trascende. Il problema diventa allora, secondo il filosofo francese, «l’autopurificazione», «la purificazione interna delle religioni» (Ivi, p. 20), quali esperienze umane e fallibili, fino ad arrivare a «quel fondo» che non viene detto, che non può essere formulato dogmaticamente, ma che è in un certo senso presupposto quando si dialoga con altre tradizioni religiose, perché le «governa da lontano, da un punto oscuro, dalla luce di un punto oscuro» (Ivi, p.12).

 

Nei testi sacri delle grandi religioni, in cui i temi della violenza, dell’odio, del peccato hanno un ruolo preponderante, troviamo, accanto ad alcuni passi che espongono la critica della violenza, altri che la sacralizzano. Alcune pagine della Bibbia, ad esempio, sono striate di violenza che si presenta, quindi, intrecciata in maniera incandescente con la fede religiosa. «Basti solo pensare- afferma il teologo Gianfranco Ravasi- alle stragi sante, il cosiddetto herem o “sterminio sacro”, che accompagnano la conquista della Terra promessa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il “Dio degli eserciti» (G. Ravasi, La santa violenza, Il Mulino, Bologna 2019, p.11). Dal momento che la parola di Dio si esprime in parole umane storiche, «è necessario escludere- continua Ravasi- ogni forma di fondamentalismo letteralistico che assuma il testo in modo cieco senza ricorrere a una corretta interpretazione per coglierne il senso genuino, al di là del velo delle espressioni letterali» (Ivi, p. 14).

 

In certi casi, dunque, l’ispirazione violenta viene abbandonata, mentre a volte viene sfruttata con conseguenze tragiche. Ad esempio, quando si tenta di strumentalizzare la religione nei conflitti che non hanno niente a che vedere con la religione stessa, ma piuttosto con cose secolari come il potere, la gloria, il territorio.

 

Il filosofo Jürgen Habermas parla, a tal proposito, di «strumentalizzazione politica» (J. Habermas, Rinascita delle religioni e secolarismo, Morcelliana, Brescia 2018, p. 17) del potenziale di violenza insito nelle religioni e porta quali esempi la dittatura dei mullah in Iran e il terrorismo islamico (Ivi, p.19). In questi casi, ricorrere alla violenza significa mistificare l’adesione alla fede, manipolare il nome di Dio e usarlo come scudo per coprire un’idea che non è religiosa, ma si presenta con carattere assoluto; vuol dire cancellare dalla realtà divina gli elementi di misericordia che appartengono alla sua essenza più profonda.

 

Scrive al riguardo J. Assmann: «Non è nelle mani dei credenti che prende fuoco la miccia della dinamite semantica contenuta nei testi sacri delle religioni monoteiste, ma in quelle dei fondamentalisti che ambiscono al potere politico e che si servono di argomenti religiosi per trascinare con sé le masse» (J. Assmann, Non avrai altro Dio, p. 128).

 

Le religioni possono, dunque, essere utilizzate come uno strumento ideologico di scatenamento della violenza, diventando così «un dispositivo simbolico importante nelle politiche d’identità», ovvero un «repertorio di simboli che attori sociali e politici diversi utilizzano per parlare d’altro e dell’altro: dell’identità minacciata e del volto del nemico che la minaccia» (E. Pace, Perché le religioni scendono in guerra?, Laterza, Roma-Bari 2008³, p. X).

 

Analizzando il nesso tra religione e violenza, non possiamo tralasciare la forza acquisita, in epoca moderna e contemporanea, dal fondamentalismo religioso, un atteggiamento che mira a imporre non solo un’interpretazione letterale dei testi sacri di una religione, ma anche una loro applicazione a ogni aspetto della vita sociale, economica e politica (A. Giddens- P. W. Sutton, Fondamenti di sociologia, Il Mulino, Bologna 2014⁵, p. 259).

 

Il fondamentalista, convinto che esista una sola visione del mondo e che non ci sia spazio per l’ambiguità, assume il primato assoluto del Libro sacro a cui bisogna attenersi rigidamente per non venir meno alla propria identità religiosa e per non cedere alle forze della modernizzazione che insidiano le fondamenta della società tradizionale, ad es. la famiglia, il dominio maschile sulle donne ecc. (Ibidem).

 

Secondo il filosofo Adriano Fabris, per «mentalità fondamentalistica» si intende «una patologia del pensare, nella quale un assunto particolare, contingente, circoscritto viene considerato valido per tutti, necessario e assoluto» (A. Fabris, Filosofia delle religioni, Carocci Editore, Roma 2012, p. 25).

 

La violenza ha a che fare con l’identità e la vita nei gruppi e, come si è visto, la religione sostiene i gruppi in modo più efficace di qualsiasi altra forza. I gruppi uniscono e dividono allo stesso tempo. Ogni gruppo deriva dall’ «aggregazione di più individui per formare un Noi collettivo. Ma ogni Noi si definisce a fronte di un Loro, quelli che non sono come noi» (J. Sacks, Non nel nome di Dio, p. 42).

 

L’identità “muro”, «che considera l’altro semplicemente come ciò che deve essere negato», è tipica del fondamentalista. «Essa implica un’affermazione di sé esclusiva ed escludente. Ci deve essere infatti un muro tra me e l’altro a garanzia di tale esclusione» (A. Fabris, Filosofia delle religioni, p. 26). Nella mentalità fondamentalistica tutte le differenze e le distinzioni sono «appiattite», così come «sono confuse particolarità e universalità, storicità e assolutezza» (Ivi, p. 27).

 

Tali atteggiamenti intransigenti e radicali hanno sicuramente influito sulla considerazione delle religioni come violente e polemogene, al punto che per alcuni studiosi l’unica strada percorribile è la loro esclusione dalla sfera pubblica. Secondo altri, invece, il processo di secolarizzazione in atto nella società deve fare i conti con la persistenza delle concezioni religiose e delle comunità confessionali che le esprimono, ossia con il fatto che la religione si rivela essere una potente figura della contemporaneità con la quale è necessario porsi in dialogo. È questa, ad esempio, la prospettiva di “apprendimento complementare” portata avanti dal filosofo Jürgen Habermas e dal teologo Joseph Ratzinger.

Informativa sulla Privacy