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Una politicizzazione dell’amicizia
Gianluca Viola

12.01.2025

 

È luogo comune che quest’epoca nella quale vivacchiamo sempre più a fatica sia in verità un’epoca d’estrema atomizzazione, era del singolo e dell’individuo isolato, tempo “liquido” – come spesso si è detto -, nel quale la solidità delle appartenenze collettive si dissolve in un movimento nichilista; se volessimo definirla, dal punto di vista dell’affettività, strizzando l’occhio ai sicofanti del prefisso post, dovremmo forse parlare di epoca del post-legame, ma tale definizione sarebbe ambigua: da un lato, essa guarderebbe alla fine dei legami codificati – famiglia, nazione, etnia, classe sociale – come fatto compiuto, dall’altro aprirebbe, appunto, a ciò che accade dal momento in cui si afferma, se non la fine effettiva del vincolo cui dava luogo il legame, per lo meno la crisi profonda di quest’ultimo, cercando e trovando lo spazio per un’ulteriore affermazione di una nuova esperienza.

 

Geoffroy de Lagasnerie, filosofo e sociologo d’oltralpe fra i più apprezzati, ha individuato il “modo di vita” – chiaramente, nel senso foucaultiano - dell’epoca del post-legame in un’esperienza tanto antica e tanto nuova: l’amicizia. A tutta prima, non appare semplice comprendere in che modo l’amicizia possa diventare la modalità affettiva dell’epoca del post-legame, poiché “la caratteristica principale dei rapporti di amicizia che ciascuno di noi intrattiene nel corso della propria esistenza risiede nel fatto che essi si inscrivono in una logica di complementarietà con l’organizzazione tradizionale della vita”, nel senso che “sono funzionali, integrati, coesistono insieme alle altre forme di sociabilità e alle identità famigliari e professionali, e ne partecipano al funzionamento” (G. de Lagasnerie, 3. Un’aspirazione al fuori. Elogio politico dell’amicizia, L’orma editore, Roma 2024, pp. 26-27). In questo modo, per quanto l’amicizia possa essere considerata importante all’interno delle vite di ciascuno di noi, essa è chiaramente subordinata a forme più stabili, sicure e durature del legame, forme sostenute istituzionalmente, alla cui continua riproduzione la società spinge, giacché è precisamente attraverso queste forme che è possibile, per la società, riprodurre se stessa su più piani differenti. Infatti: “mentre i legami familiari e coniugali e perfino la maggior parte dei legami minori che intratteniamo nel corso della vita sono inscritti in dispositivi che li sostengono (la coabitazione, il contratto di matrimonio, la rete professionale o ancora la prossimità nello spazio legata al vicinato…) e sono dunque dotati di una relativa stabilità che li rende in gran parte indipendenti dai soggetti che li vivono, i legami di amicizia puri sono precari” (p. 47).

 

Ciò significa che, mentre è possibile studiare oggettivamente dal punto di visto sociologico istituzioni quali il matrimonio, la parentela o il vicinato, non è possibile fare lo stesso con l’amicizia, giacché quest’ultima presuppone un coinvolgimento diretto delle soggettività in legame, le quali non si limitano meramente ad adagiarsi all’interno di una posizione ricevuta dall’esterno – a conformarsi a un ruolo che, pur fondativo, rimane esteriore: diventare il padre di, il marito di implica certamente un profondo cambiamento all’interno della soggettività, ma nel senso per cui sono proprio questi ruoli, ricevuti dall’esterno e già codificati all’interno del sociale, a modificare la soggettività in questione; invece “il soggetto di amicizia è dunque un tipo di soggetto specifico, prodotto dalla relazione tanto quanto lui la produce, cosicché le condizioni di possibilità dell’amicizia sono anche i suoi effetti” (p. 49). Perciò, il libro di Geoffroy de Lagasnerie non si presenta come una riflessione asettica sul tema dell’amicizia all’interno del contemporaneo: piuttosto, seguendo queste premesse, per parlare di amicizia è necessario mettere in gioco il piano della propria soggettività, scavare nell’intimo, interrogare il profondo – per parlare di amicizia, in un modo o nell’altro, è necessario parlare di sé, è necessario parlare dei propri amici. In effetti, per descrivere in che modo l’amicizia divenga “modo di vita”, è necessario guardare all’amicizia dall’interno, fare attenzione ai particolari, confessare quella o questa visione del mondo sottesa alla propria esperienza: e de Lagasnerie può dunque raccontare episodi comuni del proprio quotidiano insieme ai suoi amici, a Didier Eribon, a Édouard Louis, nella consapevolezza che questo, piuttosto che inficiare la riflessione, è l’unico modo possibile per condurre un’indagine sull’amicizia, è l’unica possibilità filosofica di discorrere intorno a temi quali “cos’è l’amico?”, “qual è il soggetto dell’amicizia?”, oppure “a cosa aspira l’amicizia?”.

 

È molto interessante – riportando alla mente i secoli e secoli di discussione filosofica intorno al tema dell’amicizia – che, in questo caso, anche il titolo stesso faccia riferimento al numero degli amici, una questione antica, su cui Aristotele si soffermò parecchio: il numero tre, sicuramente derivato dall’esperienza effettiva della vita dell’autore, ha una sua particolarità all’interno della filosofia dell’amicizia. Alcuni aspetti di intimità, capaci di rimandare alla categoria del mélange, parrebbero evocare la pesante figura di Montaigne, iniziatore del discorso filosofico moderno dell’amicizia: ma, com’è ben noto, il pensiero di Montaigne sull’amicizia era fondato su un’etica del vis-à-vis che limitava a due il numero degli amici; l’inserimento di un terzo – senza che ciò presupponga una semplice triangolazione o la creazione di una figura perfetta, senza che sia nemmeno prevista la possibilità di un’interscambiabilità dei membri – presuppone un allargamento politico della vicenda amicale, un’apertura ulteriore al vis-à-vis, la quale rimane purtuttavia individuale, dotata di un nome e cognome – non si tratta, come in Lévinas, del terzo come simbolo del sociale, a partire dal quale sia possibile parlare di giustizia: si tratta, piuttosto, della possibilità di moltiplicare il sentimento amicale, ovvero il fatto che “quando si è insieme agli amici, talvolta capita che ciascuno provi una specie di momento di grazia, di felicità di essere con l’altro e con gli altri”; de Lagasnerie aggiunge: “penso che tale sensazione denoti un sentimento di accesso a un fuori di sé e della società in generale” (p. 36).

 

Diventa interessante soffermarsi su questo aspetto: è la presenza del terzo a garantire che tale accesso al fuori di sé non si esaurisca in una fuoriuscita autistica dal mondo, come avviene attraverso il sentimento amoroso, per le coppie – de Lagasnerie ed Eribon sono, secondo le nostre convenzioni, di fatto, una coppia -, ovvero nello scivolamento comune in un idios kosmos; il terzo, piuttosto, favorisce “l’aspirazione utopica a una vita altra” come una possibilità politica. Non ci si stanca mai di ripetere il vecchio adagio di Giorgio Agamben secondo cui: “L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica” (G. Agamben, L’Amico, Nottetempo, Milano 2007, p. 19). È vero che i tre amici di cui stiamo discutendo condividono di fatto qualcosa – un medesimo campo di interesse legato alla filosofia, alla sociologia, alla letteratura, un insieme di idee e di valori, la passione della scrittura e della lettura, etc. -, ma la politicizzazione dell’amicizia di cui il libro di de Lagasnerie dà testimonianza è la rottura della dimensione attuale dei legami codificati, l’interruzione del corso omogeneo della stratificazione sociale, la quale è aperta, indistintamente a chiunque abbia l’intenzione di elevare l’amicizia, appunto, a “modo di vita”, ovvero a “piattaforma di invenzione di uno spazio altro, di un fuori rispetto alla società, uno spazio contro-culturale in cui si inventa un’altra maniera di esistere” (G. de Lagasnerie, cit., p. 57). In questo senso, è l’amicizia, quale con-sentire originale a monte della politica, propone una sua politica: “l’amicizia reca in sé l’idea di una vita al di là del riconoscimento. È il nome di una pratica di sé che prende la forma di una politica dell’affermazione, di una morale nietzscheana dell’azione, dell’attività, opposta al risentimento e alla reattanza generati immancabilmente dall’ossessione del riconoscimento” (p. 164) e quindi dalla necessità di assumere un ruolo all’interno dell’ordine simbolico dominante. L’amicizia, in questo modo, esalta l’invenzione di sé in quanto soggetto autonomo, a discapito della finzione istituzionale con la quale ognuno di noi, presto o tardi, sembra destinato a identificarsi – con il possibile scacco dei processi d’identificazione, sempre, costantemente, in agguato.

 

In quanto soggetto coinvolto dall’amicizia come pratica del sé – in quanto soggetto dell’amicizia e, allo stesso tempo, soggetto all’amicizia intesa in questa prospettiva -, la politicizzazione dell’amicizia proposta da de Lagasnerie mi appare lontana dalla mia esperienza dell’amicizia come “modo di vita”. Benintesi, non perché non ritenga corretta l’opposizione dell’amicizia alle altre pratiche del sé socialmente orientate e socialmente determinate: piuttosto, ritengo, come lo stesso de Lagasnerie ammette, utopica la prospettiva di una trasformazione del mondo a partire dall’amicizia – una politica rigorosa dell’amicizia. Essa rimane “un’aspirazione al fuori”, ma il fuori così ricercato non esula dalla reazione alla prospettiva di un dentro invivibile e alla volontà di “vivere altrimenti”; tutta un’altra prospettiva sull’amicizia – secondo la linea Bataille-Blanchot, ignorata da de Lagasnerie – propone l’amicizia come effetto della sovranità, ovvero come completa dimissione della soggettività e del mondo. L’amicizia, così, non è una possibilità, interna al mondo, contro il mondo, ma l’impossibile a cui si può avere accesso alla fine di un mondo, quando il mondo è perduto. La formula dell’amicizia potrebbe essere allora desunta da quei versi magnifici di Paul Celan, che risuonano come “Die Welt is fort, ich muß dich tragen”, il mondo è perduto, io devo portarti. Tanto è stato scritto su questo verso, il quale non pone certo in primo piano la questione dell’amicizia, quanto quella di un’originaria co-essenzialità fra il sé e l’altro alla luce di un mondo in rovina. Da “modo di vita”, l’amicizia si tramuta, in qualche misura, in un “modo di morte”, si pone all’altezza della morte: nessuna politica può affrontare il mortuum, nessuna politica può farsi carico di questa perdita del mondo.

 

Nell’epoca del post-legame, l’amicizia, intesa secondo la prospettiva di de Lagasnerie, può essere solo il preludio a quella dimensione descritta da Georges Bataille, dimensione nella quale si è “amici fino a quello stato di amicizia profonda in cui un uomo abbandonato, abbandonato da tutti i suoi amici, incontra nella vita colui che lo accompagnerà oltre la vita, anch'egli senza vita, capace dell'amicizia libera, libera da ogni legame”. Per questa amicizia profonda, amicizia assoluta, ci sarà da attendere: per ora, val bene una politicizzazione dell’amicizia, se essa può servire a focalizzare l’attenzione su questo immensa relazione, data per scontata e, perciò, attualmente, quasi del tutto sconosciuta.

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