Apocalissi incoative dell'umano
Orsola Rignani

30.04.2023

Forse nessun tema è evergreen quanto l’apocalisse, in cui peraltro l’accezione chiliastico-escatologica è andata sovrapponendosi al significato letterale originario di dis-velamento. Un fenomeno, questo, che, a ben guardare, sembra avere favorito la formazione di campi di forze nevralgici tra fine (ossia post e trans), inizio (ossia incoazione), che in qualche modo si richiamano, e appunto dis-velamento. Se tutta la storia pare disseminata e talora informata da questi campi, non sembra certamente fare eccezione la temperie che, con un buon grado di ambiguità, di approssimazione, di generalizzazione, di senso di responsabilità misto a orgoglio antropocentrico e di recrudescenza binaria, chiamiamo Antropocene.

Gli spazi interstiziali apocalittici antropocenici sono particolarmente affollati e vivaci e, tra le tante voci che li animano, attirano particolarmente la mia attenzione quelle di Serres, di Latour e della prospettiva postumanista, alla quale l’uno e l’altro per così dire occhieggiano.

“Se viviamo veramente una crisi, nel senso forte e medico del termine, allora non c’è nessun ritorno indietro” (M. Serres, Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 11), afferma con veemenza Serres in risposta alla contingenza del terremoto finanziario del 2008, ma con uno sguardo ampio che si estende al nostro rapporto complessivo col mondo, divenuto attore primario della scena politica. Il postumano, poi, dal canto suo, afferma l’urgenza della presa di consapevolezza delle novità oggettive come tutt’uno con l’urgenza della costruzione del nuovo stesso, nel senso segnatamente dell’urgenza della presa di coscienza di un umano nuovo come urgenza della sua realizzazione (nuovo modo di essere nel mondo e di mettersi in corrispondenza con esso). E Latour, per parte sua, nel riconoscere la necessità del ritorno al linguaggio apocalittico per ridivenire consapevoli del radicamento terrestre, ammonisce: “Vivere al tempo della fine è innanzitutto accettare la finitudine del tempo che passa e farla finita con la negligenza” (B. Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020, p. 391).

Per Serres, la crisi è un picco, che impone una scelta e una biforcazione: o morte o novità, o si muore o ci si incammina in una nuova direzione. Per Latour, lo sguardo che noi e Gaia ci rivolgiamo reciprocamente è apocalittico: quella di Gaia è una sfida, ma ci rende possibile essere quello che davvero siamo, cioè Terrestri. Per Serres, il mondo diviene la referenza globale degli attuali mutamenti e si impone nelle nostre relazioni politiche (M. Serres, Tempo di crisi, cit., p. 38). Per Latour, dobbiamo abitare in questo mondo, non al di là dell’Apocalisse ma sulla Terra e in questo tempo, da terrestri che conoscono e affrontano le frontiere planetarie, sensibili alla mortalità, alla finitudine e alla “difficoltà di essere di questa terra” (B. Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, cit., p. 339). Per Serres, la crisi ci impone di ritornare a vivere in simbiosi con il mondo nella Biogea (l’unione della vita e della terra), l’“antica e nuova casa degli umani” (M. Serres, Tempo di crisi, cit., p. 45) che peraltro abitiamo da sempre, “prima che la storia, le guerre, gli odi, le culture e le lingue ci separassero” (ivi, p. 45), e che “ci fa dimenticare, a sua volta, le mille reti delle nostre separazioni” (ivi, p. 46). Per il postumano, acquisire maggiore consapevolezza della nostra dimensione ibrida può permetterci di riscoprire il valore della relazione e la continuità col non-umano in un contesto più-che-umano.

Insomma, il messaggio generale che passa sottotraccia in queste osservazioni è quello della fine del mondo come fine di un mondo, cioè come fine di un certo modo di abitare il mondo e di percepirci in relazione con esso. Cioè, per usare la metafora con cui Latour esprime con ammirazione e adesione lo spirito della riflessione serresiana, si tratta per l’umano di (ri)cominciare a fare da colonna sonora del film che è il mondo (B. Latour, The Enlightenment Without the Critique: An Introduction to Michel Serres’s Philosophy, in J. Griffin (Ed.), Contemporary French Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1988, p. 97).

La fine delle separazioni, delle barriere, dei dualismi e dei riduzionismi, l’inizio del riconoscimento dell’irriducibilità, della molteplicità, del mélange, dei legami e delle relazioni come categorie di esistenza, e il dis-velamento di queste stesse categorie come già-da-sempre-state, appaiono quindi le forze che costituiscono il campo di forze apocalittico antropocenico serresiano, latouriano e postumano, a mio avviso esprimibile, sul piano linguistico, come dirò più oltre, attraverso una combinazione neologistica di prefissi/preposizioni e incoativi. Cioè di quelle parti del discorso che, come ha sempre sostenuto Serres, aprono o marcano relazioni, passaggi, possibilità, tessono una rete di senso, spaziale, temporale e semantico, segnano l’inizio di un processo. E che sono anche gli elementi costitutivi del trans e del post umanesimo.

Post restituisce l’idea del permanere di un fenomeno nel tempo sotto forme nuove e quindi esprime un effetto/reazione, mentre trans dice un mutamento, un passare oltre, un superamento.

Attorno al primo si è precisamente articolato il postumano come postumanismo, postantropocentrismo e postdualismo, cioè come effetto/reazione all’umanesimo fondato sull’idea di uomo maschio, bianco, occidentale, scolarizzato e sul concetto della centralità ontologica, etica ed epistemologica della specie umana e della sua separazione e superiorità rispetto alle altre specie e al resto del mondo. Idee alle quali ha appunto reagito con la proposta di una concezione di uomo non attribuibile a un solo genere, a una sola razza, o a un solo contesto geografico, e di una concezione acentrica di specie umana in continuità e in ibridazione con le altre specie e col mondo.

Attorno al secondo si è invece declinato il transumanesimo come proposta di miglioramento/potenziamento della specie umana nell’attesa del suo superamento alla volta di una condizione meta-biologica di immortalità immanente.

Se pertanto post e trans umanesimo sono andati attestandosi su posizioni non facilmente conciliabili (a fronte dell’umanesimo acentrico, relazionale e ibridativo del primo, il secondo propugna di fatto un trascendimento dell’umano), ciò che qui mi sembra importante tenere presente è comunque l’istanza originaria, comune a entrambi, di ripensamento e di riposizionamento dell’umano. Per cui post e trans possono essere combinati ‘sinteticamente’ a esprimere, in senso ‘apocalittico’, effetto/reazione e mutamento insieme, ossia il permanere (nel caso di specie dell’umano/umanesimo) in forme nuove secondo una trasformazione e un passare oltre, che pur nel rinnovarsi indefinitamente, non tende né arriva al trascendimento (dell’umano/umanesimo stesso).

Ma, come ho detto, il campo di forze apocalittico antropocenico serresiano, latouriano e postumano è costituito anche dalla forza incoativa espressa efficacemente dal neologismo serresiano hominescence che veicola l’idea dell’inizio di un processo di umanizzazione inauguratore di nuove relazioni dell’uomo col proprio corpo, con i propri simili e col mondo (M. Serres, Hominescence, Le Pommier, Paris 2001).

Perciò, procedendo appunto sulla via dei neologismi e mettendo in atto, come anticipato, un’operazione di sintesi intesa a combinare e a completare i singoli componenti (post, trans e incoativo) in una relazionalità nuova, provo a chiamare postransominescente tale campo di forze, nell’intento di esprimere un cambiamento più una trasformazione più un nuovo inizio, sempre comunque dell’umano e nell’umano (non oltre esso) secondo un recupero di nessi e relazioni obliati e/o rimossi, che è quindi al tempo stesso anche un dis-velamento.

Fine, inizio e dis-velamento, il campo di forze apocalittico postransominescente emerge dunque come un passato/presente/futuro di relazioni, di legami federativi e inventivi, e quindi, quasi a scatola cinese, come una sorta di lavoro/compito di carattere sistemico-ecologico-trasversale-inclusivo-federativo sull’umano. In esso ci sono l’effetto/reazione, il mutamento, la relazione, la trasformazione a fluidificare, a ibridare, a contestualizzare e a relativizzare definizioni, categorizzazioni, partizioni, periodizzazioni, obsolescenti nelle loro pretese di assolutezza e di esclusività. Per cui si tratta di pensare e tornare, eco(nto)logicamente, a un umano in relazione con un mondo relazionale da cui si è per così dire auto-escluso. Non è più possibile ammettere la separazione, la distinzione, la gerarchia tra soggetto e oggetto e nemmeno quindi l’idea di un soggetto attivo che agisce autonomamente su un contesto oggettivo inerte (cfr. O. Rignani, Umani di nuovo. Col postumano e Michel Serres, Mimesis, Milano 2022).

E qui risuona il re-en-contre che Serres smonta per farne emergere le preposizioni costitutive nella loro carica di possibilità e riassembla in una sintesi eccedente la somma delle parti, intendendolo come l’imbattersi, il cadere contro, la contingenza come contatto tra due cose, lo choc improvviso produttore di scarto e novità, l’incrocio stocastico, innesco di cambiamento, in cui appunto si gioca il mondo. In una prospettiva in cui il contre può fare la sua parte solo nella combinazione con il re e con l’en e in cui il contro non è s-contro ma in-con-tro, ossia avec, appunto soggettivo-oggettivo, umano-altro-dall’-umano, nel contesto comune della Bio-gea, l’unione della terra e dei viventi (M. Serres, Biogea. Il racconto della terra, Asterios, Trieste 2016)

Questa suggestione di una rinnovata consapevolezza delle connessioni tra le cose trova un’espressione efficace ad esempio nella prospettiva indicata da Serres nel Parc National des Pyrénées, in cui il parco è considerato uno spazio aperto a relazioni libere, cioè uno spazio nel quale le interazioni umane giocano a pieno titolo con le interazioni degli esseri viventi e delle cose tra loro, e che, quindi, è la ‘realizzazione’, da intendersi proattivamente come programma di cambiamento, di questo reciproco intreccio di relazioni. Nel parco ha luogo il mélange, ossia la fine di ogni separazione, la considerazione della comunità dei viventi e delle cose in un biotopo specifico, la coesistenza di tutte le specie in un contesto aperto, a cui si aggiungono le relazioni molteplici intrattenute dagli umani e dai non-umani. Una decisione collettiva lascia infatti flora e fauna alle loro relazioni e al loro ambiente, ossia alle loro interazioni, ponendo fine all’antica/moderna separazione e asimmetria tra soggetto e oggetto, cultura e natura, a favore di un intreccio reciproco di relazioni. In sostanza, i Pirenei sono un monito per gli umani a ‘tornare’ alla terra e ad auto-limitarsi a favore delle montagne (M. Serres, Parc National des Pyrénées. L’ordre de grandeur, Éditions Privat, Toulouse 2007).

Quanto detto fin qui mi porta dunque a sottolineare che il campo di forze apocalittico postransominescente, nel segnare la fine per così dire dell’antropocentrismo dualista, rilancia un umanesimo più ampio (già-da-)sempre in costruzione e da costruire per la e nella relazione inventiva col mondo. Un umanesimo per cui l’umano è nuovo rispetto all’Uomo bianco, maschio, occidentale, acculturato, però non transumana; e questa novità è sostanzialmente la riscoperta e la restaurazione della co-appartenenza rispetto al mondo nel suo perenne cambiamento relazionale; un’acquisizione di consapevolezza che, del resto, è tutt’uno con l’urgenza/compito della sempre ulteriore realizzazione di questa condizione.

Insomma, ciò che il campo di forze apocalittico antropocenico serresiano latouriano postumano mi pare rilanciare è per così dire un nuovo riconoscimento del già-da-sempre-stato, cioè il riconoscimento che siamo sempre stati incoativi nel e col mondo in divenire nella relazione, che il post è sempre stato un motore, resistente alla ripetitività, all’ovvietà e all’abitudine, che il nuovo è questo stesso riconoscimento e che il riconoscimento del già-da-sempre-stato è appunto azione, dinamismo, processo di costruzione (umana nel e col mondo).

Mi sembra in conclusione di potere parlare a buon titolo, con un ossimoro appunto solo apparente, di apocalissi incoative dell’umano.