Corpo a corpo
Raffaele Santoro

18.06.2023

In un’opera del 1956 dal titolo Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? (in italiano Che cosa rende le case di oggi così diverse, così attraenti?) Richard Hamilton ripensa lo spazio fisico – ma soprattutto politico – nel quale si muove l’uomo contemporaneo durante la sua quotidianità. Lo fa contrapponendo sulla scena elementi fortemente dissonanti tra loro, i cui legami e incroci appaiono del tutto arbitrari, mai definitivi, vulnerabili.

Ne sono prove lo statico ritratto, in salsa vittoriana e appeso alla parete, contrapposto alla dinamicità dell’immagine cinematografica imbrigliata, solo per un tempo brevissimo, nello schermo televisivo; l’incontro tra la confortante sicurezza del soggiorno casalingo – l’interno – e due idee ben distinte di esterno, l’una, resa esplicita dalla finestra che affaccia sul centro cittadino, l’altra, meno confortevole, quasi sinistra, che restituisce l’immagine asfissiante di un astro che pende dal soffitto e rischia di schiacciarci; oppure attraverso prototipi di bellezza, quello maschile e quello femminile, che dominano lo spazio dell’opera con la loro invadente perfezione da culturista e da pin-up. Una perfezione da cui un’altra figura femminile, la donna che passa l’aspirapolvere in cima alle scale, sembra allontanarsi, sembra prendere le distanze. In realtà la sua non è una scelta deliberatamente politica, lei vuole solo mostrarci, come recita la scritta presente nell’opera e rivolta al tubo dell’aspirapolvere, sin dove può arrivare l’elettrodomestico che sta maneggiando; Hamilton introduce così un’altra prassi che, dagli anni Cinquanta in poi, conoscerà un destino fruttuoso e fortunato: il fenomeno della pubblicità.

Eppure resta un dato di fatto, ovvero la presa di distanza spaziale – e dunque ideale – tra questi due modelli corporali immersi nello spazio della socialità. Il culturista e la pin-up mostrano con fierezza le loro nudità, la donna invece è indecifrabile, nasconde le proprie forme sotto un lungo e pesante vestito rosso, ci volta le spalle e con la scusa di promuovere l’elettrodomestico sta andando via abbandonando la scena.

Quest’ultima polarizzazione rappresentata dal collage di Hamilton – resa possibile grazie all’avanguardistico e innovativo marchingegno pulente, l’aspirapolvere – potrebbe essere molto più interessante rispetto alle precedenti; essa si fa portatrice, infatti, di un corpo imbarazzato, che prende le distanze e finisce col ritrarsi. Siamo davanti al guaito del corpo, al suo lamento che si fa discrezione e timidezza abbandonando la scena, disertando lo scontro. Quella di Hamilton è un’opera dalla forte vocazione sociologica che sembra rappresentare, in questa schizofrenia di fisicità, il disagio con cui l’individuo vive e sente il proprio corpo in modo differente a seconda di come esso venga percepito – accettato o disprezzato – dalla società; un’opera su cui però sembra incombere un solo epilogo possibile: la conformazione al modello o l’addio alle armi.

Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? non è, ovviamente, l’unico esempio rintracciabile nelle arti visive del Novecento e in cui, anziché espressione del sentire artistico, l’opera diviene il manifesto intimistico delle debolezze e delle fragilità dell’animale politico nel vivere il proprio corpo all’interno dello spazio sociale.

Qui, infatti, si potrebbero prendere casi a menadito, specialmente da quel filone performativo che cerca di mettere in relazione il corpo dell’artista – o del performer – con quello della società, vagliandone i confini e le conseguenze più radicali. Ma il filo che sembrerebbe condurre dal corpo imbarazzato del collage di Richard Hamilton sino a Home to go di Adrian Paci, passando per la ritualità di Hermann Nitsch e per la performance partenopea di Marina Abramovic, è l’idea di un copro ritratto nel suo essere subordinato alla società, impotente di reagire e la cui unica vocazione si realizza nella resistenza, del tutto passiva, alle imposizioni e alle violenze della società.

Rispetto agli esempi novecenteschi, lo scenario contemporaneo sembra essere radicalmente cambiato; non tanto per quanto concerne l’arte contemporanea e la performance, dove sussistono ancora ricerche vicine a quelle partorite dalle prime avanguardie e neo-avanguardie. Lo scenario contemporaneo sembra essere radicalmente cambiato, si diceva, per ciò che riguarda il modo di vivere il proprio corpo in relazione alla società, percependolo e vivendolo come dispositivo attivo nella lotta alle disparità e alle ingiustizie politiche.

Oggi è evidente quanto il corpo abbia guadagnato un ruolo di primissimo piano, tanto da catturare l’attenzione del dibattito pubblico, persino quello più fazioso e approssimativo del talk show televisivo. Qui, non si esita ad accostare all’eterogeneità delle immagini di dissenso, provenienti da tutto il mondo, le medesime forme espressive adottate dalla performance novecentesca. Una rievocazione, quest’ultima, impropria e travista come può esserlo solo il paragone – fatto da Alessandro Sallusti – tra l’alluvione in Romagna e il disastro del Vajont .

Le immagini dei ragazzi di Just Stop Oil che versano un barattolo di zuppa sui Girasoli di Van Gogh per poi attaccarsi al quadro; quelle made in Italy degli attivisti di Ultima Generazione che imbrattano Palazzo Vecchio e vengono placcati dal sindaco Nardella; le manifestazioni statunitensi seguite all’omicidio di George Floyd, la cui violenza ha spesso colpito i luoghi della supremazia consumistica e capitalistica (comprese gallerie d’arte); la protesta delle giovani iraniane che fanno tremare la teocrazia di Ali Khamenei manifestando in piazza, non indossando il velo e tagliandosi una ciocca di capelli. Questi e tanti altri esempi ancora, non possono essere assunti a dimostrazione di un particolare “artivismo” che rompe il recinto della specificità artistica per gettarsi in quello dell’attivismo e del dissenso politico. Andrebbero invece letti come sintomo di un cambiamento radicale nella percezione che l’individuo ha del proprio corpo in relazione alla società che lo circonda; se durante il Novecento si è visto un corpo che resiste incassando i colpi – secondo gli esempi che ci vengono forniti dalle pratiche performative delle arti visive – nella contemporaneità esso non è più percepito come forma imbarazzante – la donna con l’aspirapolvere che fugge dai due stereotipi – ma come corpo che si fa agente, medium e dispositivo di una prassi di dissenso in cui il principio per cui si lotta è importante tanto e quanto il corpo che lo manifesta.

Questo differente modo di esperire il corpo come luogo che si fa strumento della lotta politica è spiegato molto bene da Marco Damilano in un articolo dal titolo emblematico Il corpo di ognuno, la relazione di tutti, recentemente apparso sul mensile Politica pubblicato da Domani. Confermandosi attento osservatore della società contemporanea, Damilano sottolinea come la propaganda di destra si giochi specialmente sul terreno della divisione, dell’incentivo delle disuguaglianze, sull’allargamento di una forbice ai cui estremi vi è “il noi” e “l’altro”; l’italiano e il migrante; il lavoratore e il percettore di reddito di cittadinanza; i figli di coppie di serie A e i figli di coppie di serie B ecc.. In una prassi politica, quindi, divisiva che trova come attori principali i corpi; gli stessi che, alla fine, ne pagano le spese.

Allora è proprio da qui che, secondo l’autore, è necessario partire, assottigliando la forbice delle disparità «senza operare contrapposizioni inutili e dannose tra i diritti civili e i diritti sociali, perché oggi fare politica significa soprattutto ricucire tra queste due dimensioni, che sono la dimensione individuale e la dimensione collettiva». Quella invocata da Marco Damilano – a ben vedere – è un’idea di politica che rievoca, in maniera inequivocabile, il nuovo paradigma corporeo con cui le nuove espressioni di dissenso vengono messe in pratica nell’attualità.

Un ulteriore suggerimento in questa direzione sembrerebbe provenire da un importante racconto di Raymond Carver pubblicato nel 1983 e intitolato Cattedrale (Einaudi 2014). Anche in questo scritto, come nella maggior parte dei sui racconti, Carver non pone l’accento sui fatti narrati ma sulle emozioni, gli attriti, i legami e le tensioni che invadono i protagonisti posti in relazione con gli altri; in altri termini: la sensibilità umana.

Questo aspetto, che si pone come una cifra distintiva della produzione letteraria di Carver, ci permette di sintetizzare brevemente la trama: un uomo ci racconta, in prima persona, delle proprie reazioni ed emozioni in merito all’imminente arrivo di un ospite a casa sua; si tratta di un anziano amico della moglie che non ha mai conosciuto. L’uomo che ospiteranno è cieco e ciò aumenta il senso di estraneità nei confronti dello sconosciuto. Forse riprendere le parole dello stesso narratore può aiutarci a comprendere meglio lo stato d’animo dell’uomo: «insomma, non è che morissi dalla voglia di avere un cieco per casa» (p.207).

Seppur indispettito, il protagonista supera lentamente le prime titubanze: l’ospite arriva, lascia i suoi bagagli, cenano insieme, bevono e chiacchierano. Terminata la cena, si spostano nel soggiorno dove si sistemano sul divano, il narratore e sua moglie, e sulla poltrona, l’ospite. Qui si intrattengono nel dopo cena bevendo alcolici e fumando dell’erba, la TV è accesa, la moglie del narratore si addormenta, i due uomini restano sostanzialmente soli e discutono di vari argomenti.

La televisione, finora solo un indiscreto e piacevole sottofondo, trasmette un documentario di storia dell’arte in cui vengono mostrate diverse cattedrali europee, per lo più gotiche. Ora accade qualcosa che spezza il flusso ordinario che sembrava aver preso la serata e, con essa, la trama del racconto di Carver: l’ospite, cieco e che pertanto non ha mai visto una cattedrale, chiede al narratore di descrivergliene una. L’uomo ci prova, arranca, sente il limite della parola, inciampa nell’impossibilità di afferrare anche il più semplice e immediato aspetto connotativo del linguaggio, cade nella voragine della distanza tra se stesso – colui che vede – e l’altro – colui che non vede.

Ma è proprio l’ospite a colmare questo vuoto proponendogli di disegnare una cattedrale; l’uomo accetta, forse è l’unica soluzione per risalire dall’abisso in cui è caduto per colpa della parola; l’uomo disegnerà la cattedrale e l’ospite, appoggiando la propria mano su quella del padrone di casa, lo seguirà. Continuano così, la mano dell’uomo che tiene la penna e traccia il disegno dell’architettura sacra e, appoggiata sulla sua, la mano del non vedente che – contrariamente a ciò – può vedere, finalmente, una cattedrale. I due continuano, mano nella mano, a disegnare finché non accade l’esatto opposto, lo scambio, il confondersi di due corpi inizialmente così distanti e, successivamente, inconfondibili: l’uomo che disegna chiude gli occhi, il cieco gli dice: «Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta, da’ un po’ un’occhiata. Che te ne pare? Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi […] Tenevo ancora gli occhi chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo la sensazione di non stare dentro a niente». (p.226)

Carver supera i limiti del linguaggio per ribadire con forza l’importanza di un incontro attraverso i corpi e di cui questi si fanno carico. Nel racconto, così come nel suggerimento di Marco Damilano e, soprattutto, nelle attuali manifestazioni di dissenso a cui si è fatto riferimento, il singolo corpo non rifiuta lo scontro né lo subisce, ma lo cerca, lo imbastisce e se ne fa promotore; si assiste così ad un incontro in cui è lontana l’idea della violenza, dell’imbarazzo e dell’usurpazione dei corpi – questa la usa solo chi vuole aumentare le distanze, non appiattirle – mentre, al contrario, si fa sempre più presente la volontà di ricucire le distanze, intaccare le coscienze e ritrovare un corpo a copro politico in cui sentirci parte di qualcosa di nuovo, di qualcos’altro.