Dal Branco al Gruppo: percorsi di de-sensibilizzazione alla cultura deviante
Celeste Giordano, Rosa Vieni

30.07.2022

I primi incontri di gruppo all’interno dell’IPM di Airola sono avvenuti nella primavera del 2016 per intervenire sulla gestione dell’aggressività, affrontare le dinamiche tipiche del contesto detentivo e quelle nascenti, soprattutto in seguito all’inasprirsi degli scenari sociali relativi alla lotta esterna tra clan, che si stava consumando nel Centro Storico di Napoli e che, nonostante il lavoro costante degli operatori, continuavano ad avere delle ripercussioni sul clima interno creando momenti di conflittualità e di refrattarietà al trattamento dovuto soprattutto dall’avvicendarsi di detenuti affiliati ai diversi clan camorristici, spesso in guerra, che esercitavano un’azione carismatica e talvolta di sopraffazione nei confronti dei detenuti comuni.

I gruppi, quindi, sono stati ideati e progettati al fine di reintegrare e garantire agli utenti dei vari clan che si fronteggiavano, degli spazi trattamentali comuni, per non rischiare di creare separazioni, ulteriori divisioni e inasprimenti del conflitto, ma accompagnarli all’integrazione, la dove è percorribile, nel contesto carcerario.

I gruppi, infatti, si configurano come spazio di ascolto, confronto e riflessione, finalizzati ad una sana convivenza. Al contempo, essi si propongono di iniziare un processo di modifica degli stili relazionali rendendo questi ragazzi più capaci di gestire e contenere quella rabbia e quella violenza che troppo spesso viene agita. Infatti, il pensiero e la riflessione possono far diminuire esponenzialmente i passaggi all’atto, facendo sperimentare loro, una percezione ed una dimensione di sé diversa che potrà poi essere un punto di partenza per il cambiamento individuale e per il processo di riconciliazione con il sociale.

L’assetto branco che caratterizza i comportamenti devianti, le dinamiche della criminalità organizzata o le ideologie estreme in senso lato, durante l’adolescenza offre un escamotage perché toglie il soggetto dall’impasse di confrontarsi con la propria dimensione soggettiva, con le proprie contraddizioni, con i propri limiti, con il proprio inconscio, ponendo la parte problematica al di fuori di sé, identificandola con un nemico esterno che viene attaccato, rischiando la loro stessa vita e trascurando completamente le conseguenze delle proprie azioni. Si arriva, così, a uno stadio in cui c’è un’abdicazione totale al pensiero, alla complessità che fa parte della realtà; non c’è più spazio per altro, per il dialogo ma c’è un assetto tipo branco che sembra liquidare tutte le difficoltà della crescita, della differenziazione e della autorealizzazione. Si abbandona il proprio senso critico a favore di una dimensione ideale ed “onnipotente”, che rende possibile il ritorno a una fusione infantile e primitiva. Infatti non vi è pietà per il debole percepito come diverso, come appartenente ad un’altra fazione, razza, o specie proprio perché portatore di molteplicità.

La diversità viene vissuta come un indebolimento, un dubbio, un’esitazione che toglie forza all’agito e alla compattezza del pensiero collusivo; il branco odia l’alterità in quanto determina la percezione della debolezza fisica e psicologica e soprattutto l’emergere della paura, un’emozione da tenere lontana, da scindere e proiettare sull’altro visto come pericoloso. Ed ecco che taluni individui si difendono illudendosi di condurre una vita da superuomini, fatta di azioni violente frutto di pensieri veloci e risolutivi.

Quindi tenendo presente che il gruppo in adolescenza rappresenta un'indispensabile esperienza al servizio della crescita, si è pensato di utilizzare la gruppalità per permettere a questi ragazzi di accedere a forme di funzionamento mentale più mature, caratterizzate dal pensiero e dalla condivisione con i pari dell'angoscia connessa allo svolgimento dei compiti evolutivi. Il gruppo, infatti, è considerato non come unione di più individui singoli ma come un insieme unico, in cui è importante collegare, unire e mettere insieme gli interventi in un tessuto pensante più articolato e complesso.

È stato quindi evidente come la mancanza di sicurezza interna, fondamentale per affrontare i compiti evolutivi, determinata da quella fiducia di base che si alimenta durante l’infanzia sia stata minata nella storia di questi ragazzi. Tale vissuto di insicurezza appare visibile non solo a livello familiare ma anche sociale in senso lato, vivono ai margini della società quasi spettatori di chi detiene agiatezza e potere, e si trasforma in rabbia verso le istituzioni che in qualche modo avvertono come disinteressate.

La rabbia diventa distruttiva, moltiplica gli agiti determinando un comportamento attivo che dà loro l’illusione di essere finalmente attori, protagonisti della propria vita e finalmente visibili. Tale distruttività dà sollievo e quindi crea dipendenza. I ragazzi parlano dell’“Adrenalina” come di uno stato psichico di euforia e benessere che sperimentano nell’azione deviante e che crea una coazione a ripetere difficile da interrompere.

Si pensi allora ai kamikaze, agli attentati o anche ai ragazzi che continuano a delinquere, fuggendo dalle comunità, interrompendo messe alla prova, troncando percorsi di recupero, a quei ragazzi che spesso utilizzano l’espressione “che tenim a perd” come se la loro vita fosse già scritta e con una conclusione tragica. Parlano di destino come di una forza superiore che decide le loro vite e contro cui non possono fare nulla. Ed ecco come durante gli incontri vengono fuori pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi che sembrano avere la funzione di giustificare le loro azioni come se non si potesse fare altro che attaccare e distruggere. All’interno del gruppo emergono anche voci diverse ma che esprimono la possibilità di fare altro; il gruppo diventa una rete di identificazioni proiettive multiple, dall’analisi della quale l’individuo riconsidera la costituzione del suo sé. In questo modo il ragazzo immerso nel gruppo acquista la consapevolezza della sua struttura multipla e del suo essere multiplo anziché singolo.

Ecco l’aspetto evolutivo del gruppo ancora più importante perché formato da adolescenti, da individui che stanno affrontando il processo di individuazione e differenziazione, da ragazzi che troppo spesso sono in corsa come se tollerare l’indefinitezza, la frammentazione e la disintegrazione dell’adolescenza fosse insopportabile e quindi cercano di balzare all’età adulta, avendo figli, guadagnando tanto e dimostrando di non avere paura. La paura la proiettano sugli altri cercando di vivere in questo modo un’onnipotenza pericolosa.

I gruppi non sono stati solo un’osservazione ma anche il tentativo concreto di far confrontare i membri con altri modi di pensare e soprattutto di dare contenuti alle loro affermazioni. I ragazzi infatti impegnati con operatrici specializzate (psicologa ed educatrice) nella lettura di articoli, libri, visione di cortometraggi, incontri con autori e registi hanno potuto fare esperienza di ambiti diversificati. In modo applicativo si è pensato all’uso dello psicodramma per smuoverli dalle loro posizioni radicali e determinare un aumento dell’empatia e della fiducia in sé. Lo psicodramma è stato un modo efficace per riattivare l’empatia attraverso la messa in scena di tipo teatrale del proprio vissuto, più o meno problematico, per giungerne alla rielaborazione e, nel caso di conflitti e problemi, alla loro risoluzione attraverso la possibilità di rivedere e rivivere il proprio problema sia dall’interno come protagonista, sia dall’esterno, come spettatore.

All’interno di una sessione psicodrammatica si possono osservare e sperimentare vari fenomeni, normalmente interrelati fra di loro, quali la catarsi, intesa come liberazione delle emozioni legate ad un vissuto più o meno profondo; la presa di coscienza (insight) di contenuti rimasti fino a quel momento latenti all’interno della propria consapevolezza; la ripetizione attiva dell’esperienza più o meno traumatica; la rielaborazione del proprio vissuto. Tale procedura psicodrammatica ha permesso ai ragazzi di mettersi a confronto con ciò che effettivamente provano, dandosi così la possibilità di una rielaborazione e presa di coscienza successiva.

La rielaborazione viene favorita dalla possibilità ulteriore di veder interpretato il mio stesso ruolo in scena da un altro membro del gruppo e poter quindi osservare l’interazione dall’esterno, come spettatore di me stesso, riuscendo così a notare sfumature della mia e dell’altrui interazione che dall’interno, come sul piano reale, mi erano magari sfuggite. Caliamo adesso questa tecnica nella relazione detenuto – agente e vediamo quanto la drammatizzazione e lo scambio di ruolo abbia reso possibile per entrambi una maggiore conoscenza dell’altro provando ad indossare i panni dell’altro nel senso di ampliare la prospettiva e comprendere il ruolo dell’altro, persino di un agente. Tale esercizio emotivo è di fondamentale importanza per i giovani autori di reato, essi spesso realizzano quel distacco emotivo forte che gli impedisce di provare le emozioni della vittima e quindi realizzare l’azione deviante.

Lavorare sull’empatia significa credere prima di tutto che questi ragazzi hanno tali risorse emotive e provare a scongelarle e fluidificarle in modo che l’aspetto affettivo si integri nella loro personalità. Un giovane dopo questi esercizi ha detto “ma se lavoriamo sull’empatia come li facciamo i reati?” Non vi è dubbio, quindi, che la dimensione del gruppo con l’integrazione degli agenti penitenziari durante la fase matura del percorso, abbia dato la dimensione della validità a questo strumento multidisciplinare. Il lavoro effettuato ha avuto una ricaduta anche rispetto al tipo di relazione che si instaura solitamente tra gli operatori penitenziari e le persone detenute. Quasi sempre la relazione individuale, per il fatto stesso di essere tale, non consente di sperimentare modalità capaci di creare momenti esperienziali di riflessione e confronto costruttivo tra i ragazzi, con la presenza matura dell’adulto, e tra operatori e ragazzi in uno spazio garantito emotivamente, anche all’interno di un’istituzione rigida come il carcere.

Un aspetto significativo della strutturazione dei gruppi è stato quello di far vivere ai ragazzi la dimensione del dentro e del fuori adottando come metodo didattico la riflessione su tematiche specifiche; questo perché secondo le direttive del D.P.R. 448/88, il processo penale minorile rappresenta un momento di riflessione e di opportunità di esperire buone relazioni che possono dare esiti positivi anche in momenti successivi della crescita del minore.

In un’ottica d’avanguardia ci si potrebbe immaginare una tecnica di intervento di tipo preventivo che sulla base dell’esperienza in istituto (carcere come microscopio dei processi della macrorealtà) possa essere esportato e implementato fuori. Una serie di interventi (psicodinamica di gruppo, sportello psicologico ed educativo, accompagnamento individualizzato, gruppi esperienziali, supervisioni psicodinamiche e mediazione interistituzionale, peer tutoring…) integrati fra di loro, che intervengano sui diversi fattori, individuali e gruppali, della componente adolescenziale e di quella adulta, che si intrecciano all’interno degli ambienti educativi. Si tratta di attrezzare nei pressi delle aree ove crescono i ragazzi dei dispositivi che perseguano, utilizzando l’animazione e l’educazione, lo sviluppo delle capacità di simbolizzazione, la ripresa della funzione riflessiva, la soggettivazione e il rilancio nella realizzazione dei compiti evolutivi adolescenziali. Si rileva infatti un bisogno estremo di nuovi incontri interdisciplinari e di nuove strutture intermedie, di servizi non più organizzati sulla base dell’elenco delle psicopatologie ma sull’utilizzo della gruppalità.

Si conclude la disamina ponendo particolare attenzione ai multipli significati della parola “Luogo” intesa come spazio virtuale, naturale, familiare o istituzionale dove avviene l’incontro tra gli esseri umani. Considerando che gli esseri umani abitano e vivono i luoghi, ogni delimitazione, ogni luogo vive della duplicità di limen e limes. Il limen è la soglia che implica il dentro e il fuori è una “porta”da cui si entra e si esce. Il limes invece è un “posto di frontiera” quando il fuori è considerato nemico. Il punto di contatto, di confine, che implica l’incontro, rappresenta il punto di dialogo con il confinante.

Si auspica che il “luogo carcere” diventi un limen ossia una soglia che implica una relazione tra il dentro ed il fuori, non un luogo di limes cioè di isolamento, ma un luogo di relazioni e scambio, dove l’immobilità diventi fluidità per permettere alle parti creative e sane dei ragazzi di emergere e non congelarsi. I luoghi sono contenitori della cultura e le persone sono contenitori di luoghi, al di là dei contesti di provenienza e di vita; essi possono nascere ovunque ci siano delle idee che mettono in movimento la creatività. E’ proprio da un luogo, da un incontro, da una relazione è nata una nuova idea, un progetto, una sperimentazione integrata e multi professionale, che al pari della crescita dell’adolescente ha sviluppato un processo creativo e artistico capace di liberare la pulsione epistemofilica, troppo spesso bloccata nei contesti istituzionali dall’immobilismo. Proprio da questa esperienza entusiasmante per tutti i partecipanti è nata la promessa di portare ovunque ci siano occasioni educative questa testimonianza.


Rosa VIeni è sociologa presso l'Ufficio Servizio Sociale Minorile. Celeste Giordano è una psicologa presso l'Ufficio Servizio Sociale Minorile.

Entrambe lavorano presso l'Istituto Penale Minorile di Airola, Benevento. Insieme hanno pubblicato il volume Dal Branco al gRUppo (Sensibili alle Foglie, 2021).