Dal fondo della valle
Emma Masut

29.10.2023

La parola «perturbante» in tedesco ha una valenza ambigua: heimliche, infatti, può significare contemporaneamente «familiare» e il suo contrario, è il termine stesso ad essere unheimlich, ovvero nascosto, tenuto celato, ed è a partire dal suo significato che il perturbante prevede un annullamento degli opposti. Emerge negli spazi interstiziali, sui confini, sulle soglie che separano ciò che convenzionalmente si considera distinto: non si tratta di estremi statici, bensì di due termini definiti che possono coesistere e dialogare pur nella loro insita natura oppositiva. Ernst Jentsch definisce questo sentimento come l’“incertezza intellettuale” generata da un elemento estraneo (E. Jentsch, On the Psychology of the Uncanny, «Angelaki: Journal of the Theoretical Humanities», ii/1, 1997, pp. 7-16); Sigmund Freud suggerisce invece che sia una reminiscenza di un elemento angoscioso rimosso e superato, derivante da credenze primitivo-infantili (S. Freud, Il perturbante da Psicoanalisi e vita quotidiana, Mondadori, Milano, 1991); e anche lo studioso di robotica Masahiro Mori sospetta che sia frutto di un antico istinto primario (An Uncanny Mind: Masahiro Mori on the Uncanny Valley and Beyond. An interview with the Japanese professor who came up with the uncanny valley of robotics, Norri Kageki per «News. IEEE Robotics e Automation Magazine», 12 giugno 2012).

Masahiro Mori propone un grafico che rivela come un robot antropomorfo non sia necessariamente inquietante, ma che nel momento in cui quest’ultimo corteggia troppo il limite che lo separa dall’umano, per somiglianza o per abilità intellettive, il gradimento nei suoi confronti sprofonda bruscamente in quella che lo studioso ha definito The Uncanny Valley [M. Mori, The Uncanny Valley, «IEEE Robotics e Automation Magazine», xix/2, Giugno 2012, pp. 98-100].

Osservando il grafico, vicino all’origine troviamo i robot industriali: essendo privi di volto, l’empatia dell’uomo nei confronti di questa categoria è praticamente nulla. Prendendo in compenso in esame un robot giocattolo ci si avvicina al secondo caso descritto, dove la somiglianza con l’uomo è ovviamente maggiore e di conseguenza anche il livello di gradimento da parte dell’utenza. La situazione cambia sensibilmente quando ci si trova di fronte a una protesi poiché nel momento in cui la mano che ci sembrava naturale si scopre essere in realtà̀ meccanica – magari con una stretta di mano – emerge il sentimento del perturbante: il livello di affinità̀ con l’oggetto è alto, ma il gradimento decresce notevolmente.

Mori ipotizza che questo improvviso calo di empatia sia una dotazione innata nell’uomo, un meccanismo di difesa, che gli permetta di proteggersi da pericoli insiti nei cadaveri, negli individui malati o nelle specie differenti. La discriminante quindi non è semplicemente tra animato e inanimato, ma in ciò che non è umano, che ha perso l’umanità o che – come un robot – minaccia di andare oltre l’umanità, di mettere in dubbio la categoria umana stessa.

I vari androidi prodotti negli ultimi decenni sono conseguenza di un’umanità già cosciente della fragilità della propria etica e della propria logica; e se sono questi i valori che definiscono l’umanità, allora le intelligenze artificiali appartengono sì all’insieme umano, ma anche lo superano, andando nel post-umano: l’automa passa dall’immobilità della bella Olimpia di Hoffmann (E. Hoffmann, Der Sandmann e altri racconti, Mondadori, Milano, 2010], all’essere più intelligente, più giusto, più umano dell’umano.

Timothy Morton riporta il grafico dell’Uncanny Valley di Mori sia nel testo Humankind, solidarietà ai non umani! (T. Morton, Humankind: solidarietà ai non umani, Nero, Roma, 2022) che in Iperoggetti (T.Morton, Iperoggetti, Nero, Roma, 2018) in ambo i casi a sostegno della sua teoria, relativa a un pensiero ecologico: Morton suggerisce che l’esistenza umana sia da considerare come una coesistenza, sviluppabile in un sistema a matrioska, che va dagli Iperoggetti – fenomeni abbastanza grandi da non poter essere localizzati, come il clima o un pianeta – alla più piccola componente esistente: ad esempio l’uomo ospita dei micro organismi batterici composti da atomi, suddivisi in minuscole entità non-viventi, a loro volta divisibili ulteriormente. Morton afferma quindi che se è vero che ogni essere, vivente e non, è composto da altre entità, non viventi, non senzienti e decisamente non umane allora la componente non umana sarebbe preponderante rispetto a quella umana; di conseguenza, tutto assume un’aria spettrale, se non perturbante. Ma se tutto è perturbante allora tutto ricade nella valle del perturbante, che allora non esiste, poiché – inevitabilmente – i picchi del grafico si appianano. Questa deduzione ben si allinea con le teorie dell’Ontologia Orientata agli Oggetti, quindi a una dimensione in cui gli oggetti sono tutti egualmente reali e indipendenti gli uni dagli altri – a prescindere dal loro rapporto con l’umano – ma non è completamente esatta. Il fatto che più entità esistano sullo stesso grado di realtà dell’uomo non annulla le loro differenze costitutive: se è vero, ad esempio, che l’uomo e un determinato batterio necessitano l’uno dell’altro per vivere, non si può dire la stessa cosa dell’automa e dell’uomo, la loro relazione è diversa: anche se determinati fattori o elementi sussistono sullo stesso piano di realtà e hanno componenti comuni, ciò non comporta automaticamente che si trovino allo stesso livello nel grafico. L’angoscia perturbante è prima di tutto una sensazione mai decifrabile, ed è proprio nel vacillare della percezione e della logica che da un lato il perturbante sfasa i confini e fa precipitare nel dubbio, mentre dall’altro riafferma gli umani come umani: l’Uncanny Valley continua quindi a funzionare, poiché il perturbante sembra essere una delle poche prerogative rimaste proprie dell’uomo ed è perciò riprova di un'umanità distinguibile come tale.

Freud non menziona mai l’arte tra le occasioni di apparizione del perturbante, eppure gli esempi sono dei più vari, spaziano infatti dalle esperienze delle avanguardie storiche – che pure debbono molto ai suoi studi - alla contemporaneità: in particolare va citata la raccolta di romanzi a immagini Una settimana di bontà (1929-1934) di Max Ernst, costituiti da illustrazioni e litografie tratte dai petits jornaux e dai feuilleton in voga nell’800, ricomposte in narrazioni enigmatiche, volte a rompere la logica e a introdurre ai piaceri perversi di un mondo onirico e perturbante in un susseguirsi di delitti erotici, mostruose creature, metamorfosi di ogni genere che sconvolgono e attirano. Vi è poi Louise Bourgeoise che porta la figura umana ai suoi estremi limiti, trascinandola in una dimensione né familiare né sconosciuta, né umana né inanimata con opere come quella strana figura appesa, in latex e gesso, tra l’umano e il fallico, che è Filette (1968); o nelle sue opere in stoffa, come Single II (1996) o Single III (1996): appese o sdraiate a terra, queste figure di tessuto imbottito sono sia umane che inanimate, inquietano suscitando anche una certa empatia.

Le cere anatomiche della Specola a Firenze o i due inquietanti automi custoditi nella Cavea sotterranea della Cappella di San Severo a Napoli, per la loro inquietante somiglianza a un essere umano precedono e anticipano la valenza perturbante delle più recenti esperienze iperrealiste, ad arrivare fino ai centauri presentati da Ueffe Isolotto in occasione della 59°edizione della Biennale di Venezia, Il latte dei sogni (2022). Quello dell’artista danese non è un caso isolato poiché la Biennale di Venezia ha avuto modo di ospitare altri esempi di arte perturbante nelle sue recenti edizioni: nel 2019 ha esposto il braccio meccanico Can’t help Myself (2016) di Sun Yan e Peng Yu che, nello struggente tentativo di rimuovere e ripulire un liquido rosso sangue, ricorda le protesi che Mori inserisce al fondo dell’Uncanny Valley; nella stessa occasione viene presentata la performance Sun & Sea (Marina) (2019) delle artiste lituane Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte e Rugile Barzdziukaite: questa amplifica e raddoppia dei gesti comuni di una scena apparentemente ordinaria e spensierata, ma che nella ripetizione assume un aspetto fittizio e angosciante, aumentando il senso perturbante. L’arte in definitiva si configura non solo come il luogo prediletto d’apparizione del perturbante, ma essa stessa lo è intrinsecamente.

Emma Masut, senza titolo, olio e grafite su tavola, 20x14,5 cm, 2023, particolare