Dire una cosa e mostrarne un’altra: esempi di dissonanza generativa
Matteo Gaspari

16.04.2023

Avevamo lasciato in sospeso il nostro ragionamento sulle possibilità offerte dal rapporto tra le usuali componenti visiva e testuale del fumetto soffermandoci su quei casi che chiamavo di “assonanza generativa”. Quei fumetti, cioè, in cui parola e immagine paiono muovere parallele fino quasi a sovrapporsi ma che, a una lettura attenta, sfuggono ogni forma di didascalismo anche qualora quel testo sia effettivamente posto in didascalia. Il rischio per il lettore e la lettrice, in quel caso, è di inserire il pilota automatico tanto allenato negli anni della scuola e della formazione, così incentrati sul testo letterario da trascurare la decodifica dell’immagine come abilità fondamentale. Di ricadere, insomma, nella tendenza a “leggere le parole e guardare i disegni”, scambiando quest’ultimi per abbellimento o una ripetizione, per quanto cross-codice, invece che identificarli come parte attiva di un riverbero di senso.

Soffermarsi sull’immagine anche quando questa appaia ridondante è un’abilità che va costruita e allenata in modo che diventi inconscia e naturale e non rimanga, invece, esercizio attivo. E forse non c’è palestra migliore in questo senso di testi dissonanti, in cui parola e immagine sembrano fare a pugni invece che prendersi a braccetto. Lì, difatti, si fa evidente come i due codici portino avanti discorsi paralleli non nel senso di ugualmente direzionati ma di eternamente disgiunti; discorsi dal cui raffronto continuo emerge (o può emergere) il senso complessivo dell’opera. Un raffronto che ci appare quindi obbligatorio, necessità evidente e quasi urlata per anche la più preliminare delle azioni di decodifica e interpretazione, invece che finezza su dettagli e minuzie come potrebbe (erroneamente) apparire in altri casi dall’assonanza più marcata. Vorrei riprendere il discorso da dove l’avevamo lasciato e provare a girare la medaglia per vederne l’altro lato. Cosa succede quando parola e immagine cozzano in maniera più o meno radicale?

Una premessa prima di cominciare, ché qui è facile deragliare fuori dal seminato e suggerire che qualsiasi testo affiancato, con intenzione o no, a qualsiasi immagine possa generare del significato dalla disarmonia. Dissonanza tra testo e immagine non significa, o almeno non significa in questa sede, “liberi tutti”: non ci occuperemo di “fumetti” nei quali le due componenti siano del tutto arbitrarie, lasciando al lettore o alla lettrice l’ingiusto compito di capire se ci sia effettivamente un senso da estrarre o se piuttosto chi ha scritto quel testo non avesse idea di cosa stava facendo. Lascerei da parte anche quei casi di “dissonanza involontaria” più comunemente nota come “superficiale pochezza”. Penso ad esempio al pessimo adattamento, pubblicato da Adelphi, dell’invece notevole racconto di Shirley Jackson intitolato La lotteria. A pagina 20 la didascalia recita, presa testuale dalla prosa, che “i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante” mentre l’ampia veduta agreste che l’accompagna mostra un’erba tutto fuorché d’un verde smagliante e una manciatina di fiori appena visibili in secondo piano. Derubrichiamo faccende di questo tipo a errori, magari di poco conto, e passiamo oltre.

Eviterei anche, per quanto divertenti e senza dubbio interessanti, titoli più sperimentali o deliberatamente provocatori. Longshot Comics di Shane Simmons, per dirne uno, nel quale a popolare la griglia impietosa da 10x8 vignette ci sono personaggi “inquadrati talmente da lontano da apparire come puntini”. Non che lo siano, dei puntini: sono minatori e soldati e madri e figli, ma così sono rappresentati. Anonimi, (quasi) uniformi, capaci di muovere solo da destra a sinistra e viceversa come abitassero nella Linelandia di Abbott. Eppure li distinguiamo, sentiamo le loro voci e da quelle inferiamo il loro sentire, decodifichiamo le loro (numerosissime!) sventure che non se definire comiche o tragiche ma di certo non tragicomiche. Si potrebbe argomentare che questo sia un particolare esempio di dissonanza, nel quale il testo umanizza il moto frenetico ma immancabilmente ritmato di quelle che altrimenti non sarebbero che insignificanti macchioline d’inchiostro. Ma, come dicevo, restiamo nel seminato. Guardiamo a fumetti “normali”.

Distinguerei tre piani di dissonanza: un piano più, per così dire, tecnico e uno invece di senso, che trovo personalmente più interessante (senza per questo supporre o suggerire tra i due una gerarchia di valore).

Un esempio di dissonanza tecnica potrebbe venirci da un altro adattamento a fumetti, questa volta di un autore notoriamente arduo da trasporre in immagini: Howard Phillips Lovecraft. Prendiamo Il colore venuto dallo spazio, scritto nel 1927. Come rendere in immagini “un colore quasi impossibile a descriversi, che solo per analogia gli studiosi lo definiscono tale”? Me lo immagino, Gou Tanabe intento a disegnare la sua versione del racconto, dimenandosi contro quella che se crediamo (non dovremmo) a Mark Fisher è la caratteristica fondante dell’estetica e della poetica di Lovecraft: la non visualizzabilità. La sua soluzione, traendo vantaggio dalla limitazione al bianco e nero imposta a tanto fumetto giapponese (e quindi senza rischiare di scivolare nelle palette del viola e dell’indaco come troppo spesso accade in questi casi), è semplice quanto efficace: il “colore” viene reso con una retinatura differente da quella del resto dei disegni, e si pone quindi al di fuori del piano della realtà dei personaggi del racconto ma ben all’interno del nostro, che infatti lo riconosciamo come un “normale” grigino dal pattern di texture del tutto riconoscibile. Al testo il compito di contestualizzare, negando e contraddicendo l’apparenza dell’immagine: “è diverso da qualsiasi colore noto. Una proprietà ottica decisamente inspiegabile”. Una dissonanza pratica, insomma, che risolve l’altrettanto pratico problema di disegnare l’indisegnabile. Di visualizzare qualcosa che non segue le regole del nostro mondo – la nostra fisica, la nostra chimica, la nostra biologia – ma di farlo all’interno di quelle stesse regole.

Volendo, è un espediente analogo a quello impiegato da Gipi nel suo libro forse più bello: La terra dei figli. Quando Lido riesce finalmente a impossessarsi del diario del padre per leggerne il contenuto, il fratello Santo lo incalza: “Leggi? Ma tu non sai leggere”. Giro pagina, le parole e le frasi scritte dal padre nel taccuino sono sì parole e frasi, lo sono senza dubbio, eppure ci appaiono del tutto non decodificabili. Così come appaiono a Lido, così come quello strano colore venuto dallo spazio è certo un colore, ma diverso da ogni altro rappresentato nel bianco e nero del manga. Quanto diverso? “Non appartenente al nostro spettro elettromagnetico”, dicono le parole. Anche se poi, di fatto, per noi, non è che un grigino dal pattern di texture del tutto riconoscibile.

Ma, dicevo, è per me più interessante esplorare dissonanze che hanno meno a che fare con il lato tecnico della rappresentazione visiva e testuale, ma che sono portatrici di peso narrativo e di effetti di senso. Un buon esempio potrebbe essere l’incipit di Disfacimento di Linnea Sterte, un libro alla cui esistenza nella nostra lingua e nelle nostre librerie ho avuto il piacere di contribuire.

Uscito in origine nel 2018 per il microeditore svedese PEOW Studio, Disfacimento è uno strano libro. Attraversa ere geologiche, ci fa assistere all’evoluzione lunga eoni di civiltà che fioriscono e poi decadono, marciscono (da cui il titolo originale, Stages of Rot), si fanno humus (da cui il titolo delle edizioni francese e spagnola, In-Humus) per le civiltà a venire, in un ciclo infinito di morte e rinascita ma anche di evoluzione. Ciclicità e direzionalità. E tutto ha inizio con una balena spaziale, che viene cacciata e abbattuta. Le sue carni diventano nutrimento per i cacciatori e poi substrato per esplosioni fungine, le sue ossa fondamento per sculture trascendenti e armamenti, il deserto si fa foresta brulicante.

E tutto ha inizio con queste parole: “La causa della sua morte: forse non la sapremo mai con certezza. Troppi anni sono passati. Le hanno dato la caccia? E se sì, cosa? I suoi effetti, tuttavia… Proviamo a immaginare. All’inizio: un’improvvisa abbondanza di carne”.

Eppure poi la vediamo, la causa della sua morte. La vediamo precipitare dal cielo seguendo la pioggia di sangue che sgorga dalle sue ferite. Vediamo i cacciatori entrare dentro la balena e ucciderne “la pilota”. E poi mangiare le sue carni che danno inizio a una stagione di abbondanza. Lo vediamo, sta succedendo. E vediamo pure gli effetti di quella morte. La nascita dei funghi, l’irrigogliosirsi del mondo, l’arrivo dei barbari con le loro spade d’osso, la foresta e l’entomologo alla ricerca della pilota – o di quello che ne resta. Tutto questo, vediamo. Accade. Oppure no?

Le immagini suggeriscono un dato di realtà. Presumono, pur nella loro finzione, un “tanto tempo fa in una galassia lontana, lontana…” alla Guerre Stellari o un “forse nella Terra, forse nel futuro” alla Blame. Magari non sappiamo dove, magari non siamo sicuri di quando, ma quanto narrato è accaduto, forse non è ancora accaduto ma potrebbe accadere in futuro, è come se fosse accaduto. È la base del paradosso della finzione. Il testo invece impone di dubitare della natura di quanto vediamo. Stiamo solo provando a immaginare assieme alla voce narrante che forse è solo voce ipotizzante? A chi appartiene quella voce? Siamo di fronte al tentativo di ricostruire una cronistoria, per quanto parziale, o a un esercizio di fantasia? Il narratore ci sta chiedendo di immaginare le parti mancanti o sta suggerendoci che quanto vediamo è esso stesso le parte mancante? Parte mancante che sta ricostruendo per noi, o con noi? Ma, allora, parti mancanti di cosa? L’unica cosa certa è che la balena sia morta, questo non è messo in discussione dal Virgilio senza volto che ci accompagna. Tutto il resto… le cause sono dimenticate e gli effetti possiamo provare a immaginarli.

Quello con cui Sterte decide di aprire la sua opera d’esordio è un posizionamento ardito che oscilla tra la mitopoiesi e la speculazione, tra la richiesta implicita e costante di credere a ciò che si legge (immagine o parola che sia) e il dubbio fondativo che l’immagine contraddica la parola e viceversa. Su questa ambiguità dissonante si tutta l’esperienza di lettura di Disfacimento e, volendo, il messaggio politico che ne traspare.

Ma possiamo rintracciare istanze di dissonanza anche più leggere, senza debordare per forza sul meta-narrativo come potrebbe la struttura d’insieme di Disfacimento o il gustosissimo delirio post-moderno di Controspionaggio – Sull’ascesa e la caduta di Viktor Gaplinsky, broker. Un libro straordinario in questo senso – ma lo è davvero anche in generale, straordinario, molto più del già grande credito che gli si dà – potrebbe essere Atto di Dio, di Giacomo Nanni. Di piccolo formato, con pagine dalla struttura morigerata e dal ritmo solo all’apparenza pacato, solcate dal mix di colori (anch’esso talvolta dissonante, volendo lanciare dei parallelismi spuri) del puntinismo di cui Nanni è ormai diventato più che maestro, Atto di Dio è una storia che è tante storie. La storia di un capriolo, per esempio, che si trova intrappolato in una rotonda, assediato tanto da curiosi armati di macchina fotografica quanto da critici preoccupati che sia un pericolo per il traffico. La storia del Monte Subasio. Dell’“enorme, grosso, largo, imponente, esteso” Monte Subasio e del rapporto con i suoi abitanti umani, che sono “molto più piccoli di lui, meno larghi e imponenti”. La storia di una carabina, inconsapevole eppure ben consapevole strumento con cui un cacciatore va in cerca di selvaggina.

Il punto di vista è sempre inaspettato e oscilla da dentro a fuori i protagonisti, da ciò che vedono a come sono visti, abitati, scrutati. Si concentra i dettagli e poi si allontana. Allarga l’inquadratura per incorniciare la possenza montana prima di zoomare sull’alpinista, solo, che si cala in una grotta, nelle viscere del parlante Monte Subasio. E sopra le vignette sentiamo le voci di questi oggetti divenuti soggetti che sono ognuna la propria voce. Il capriolo con il suo fraseggio semplice soggetto-verbo-complemento, il Monte Subasio lento e ridondante, che forse ci parla tramite altri o forse parla di sé in terza persona.

Atto di Dio è, appunto, tante storie che assieme impongono di mettere in discussione il nostro rapporto con ciò che consideriamo Natura. Natura e quindi spesso oggetto del discorso, da descrivere o catturare in vedute, che qui si trasforma in soggetto parlante in un viaggio in cui osservare ed essere osservati, parlare e ascoltare si confondono. E poi, attorno a pagina 100, diventa chiaro che Atto di Dio è sì tante storie ma è anche una storia sola: quella del terremoto del 2006. Due vignette mute in cui la silhouette di un lampadario oscilla. Poi macerie, muri divelti, un letto disabitato su uno sfondo che al controcampo successivo capiremo essere la facciata distrutta di una casa che potrebbe essere la nostra. Ed è qui, solo qui, che il terremoto comincia a parlare. A raccontare né divertito né rammaricato né orgoglioso – d’altro canto, queste sono emozioni umane – i morti e i danni che ha provocato. “non vedo segni di vita”, “ho raso al suolo”, “credo che i due bambini fossero fratelli”, “sono io”, dice il terremoto verbalizzando quell’agentività che siamo soliti attribuire ai disastri naturali quasi fossero soggetti dotati di volontà propria.

E tuttavia ciò che vediamo non è il terremoto. Non lo è il lampadario che oscilla, né la parete distrutta, né i cumuli di macerie. Quello è ciò che resta del terremoto. I suoi effetti, ciò che ne rimane quand’è finito. Come se ascoltassimo la voce di un architetto a lungo scomparso mentre osserviamo fotografie degli edifici da lui progettati, godendo dello straniamento generato dalla dissonante sovrapposizione tra il soggetto parlante e l’opera di quel soggetto.

Il terremoto è un evento. Non è una cosa, nel senso ontologico del termine. Non è un soggetto, non lo si può vedere né toccare. È al più uno stato, un attributo momentaneo e collettivo (viscoso, direbbe forse Timothy Morton) delle cose: la terra “che trema”, il lampadario “che oscilla”, le macerie che “si accumulano”, gli edifici “che sono rasi al suolo”, i due bambini “che sono fratelli” e “che sono morti”. Ma non sono morti: li ha uccisi. “Li ho uccisi”. E allora forse sì che è una cosa. Una cosa che come il capriolo e il Monte Subasio interagisce con le altre cose, che ha la sua voce. Atto di Dio non ce lo mostra, il terremoto, la cosa in sé. Ma lo fa parlare, ce lo fa sentire anche quando la terra ha spesso di tremare e si cercano i sopravvissuti sotto le macerie. Se il terremoto è una cosa, un soggetto, continua a esserlo anche dopo che la terra ha smesso di tremare, il lampadario è ormai fermo e tutto ciò che vediamo è distruzione.

In Raccontare la fine del mondo, Marco Malvestio scriveva che “il problema principale della rappresentazione del cambiamento climatico sta, oltre che nella sua vastità e complessità, nella difficoltà di mettere in scena l’agentività del non umano in una maniera che non sia, a sua volta, antropomorfa”. Certo lui si riferiva nello specifico al cambiamento climatico ma il discorso si può estendere in generale alla narrativizzazione del non umano, di quello che nel sentire comune è qualcosa e al contempo non lo è. In Atto di Dio lo sguardo è sì del tutto umano e come tale incapace di visualizzare l’agente-soggetto terremoto se non tramite i suoi effetti sugli oggetti ordinari, che sono propri della nostra esperienza e della nostra ontologia quotidiana. Ma le parole che accompagnano quello sguardo, pacate di fronte al disastro, testimoniano una soggettività e un’agentività che non sono umane nemmeno per negazione, in un gioco di rimbalzo tra “noi” e “natura” che riverbera nel rimbalzo dissonante eppure pienamente significativo tra testo e immagine.