Disattivare
Un'idea di filosofia
Ubaldo Fadini
07.04.2024
Il testo che segue è tratto dal volume Disattivare. Un'idea di filosofia di Ubaldo Fadini, edito da Ombrecorte.

1. C’è una poesia di Nietzsche – Il solitario – che ricordo spesso:

Mi è odioso tener dietro e anche condurre
Obbedire? Io no! Né – governare!
Chi a sé non fa spavento non spaventa:
conduce gli altri solo chi spaventa.
E condurre me stesso a me è già odioso!
Io amo sperdermi per lunghi tratti
come in mare e nei boschi gli animali,
rannicchiarmi in beate fantasie,
poi attirarmi a casa da lontano,
e sedurre me stesso – a ritrovarmi1.


Sperdersi, rannicchiarsi (la fantasia lo consente... e così facendo libera, apre, sempre parzialmente) e poi l’attirarsi a casa (“sempre da lontano”: in un qualche modo) e il sedurre/ritrovarsi senza condurre/condursi. E ancora: la scrittura, con quel suo passo decisamente errante, tipico del vagabondare. Forse con l’illusione di lasciarsi effettivamente qualcosa alle spalle quando diventa sempre più evidente che l’unico lascito è quello del camminare, del “passatore” e delle sue ombre.

Modo, tra altri, del divenire “inumano” – o di un “umanare” differente (Tim Ingold) – sollecitato per quanto mi riguarda dalle ambiguità delle case e delle città, dal collocarsi provvisorio di quelle forze “non-umane” che fanno turbinare come il vento, per riprendere prima di tutti Renato Fucini.

A me interessa l’essenziale, sobrio, pragmatismo del “passatore” soprattutto nel momento in cui l’infinito, per dire così, si fa “ora”, riprendendo Gilles Deleuze e Félix Guattari, rendendo la “camminata senza fine”. Forse non esistono più le “zone di mezzo” nelle quali la solitudine del viandante dà prova di sé nel confronto con le imposizioni abituali, correnti, di limiti e doveri, così come scriveva Pasolini nei suoi Versi del testamento quando sviluppava la sua fenomenologia del camminare nei termini seguenti: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”2. Le zone di mezzo care allo scrittore bolognese (e “friulano”...) si delineano, con tutte le difficoltà della contingenza che si sta vivendo, anche e soprattutto all’interno del territorio urbano (non c’è altro ormai, al di là di tutte gli effetti di spaccio... e proprio a causa di quest’ultimo) e allora vale il tentativo di cogliere ciò che vi transita e che può turbare gli ordini del momento e i loro indefessi porta-voce.

Ho iniziato ad affrontare più distesamente questo tema in un mio libro di qualche anno fa, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, nel quale portavo a espressione il motivo esistenziale (e non il “vissuto”) del mio ciondolare, del mio andare oscillando di portone in portone senza cercare però di “condurre me stesso a me”. Erano già presenti alcuni degli autori per me imprescindibili, da Walter Benjamin ad André Gorz, con sullo sfondo la figura essenziale di Ferruccio Masini. Altri ne dovrei nominare, che stanno al centro del mio tentativo di muovermi con il e nel “vento che cammina”, ma qui vorrei soprattutto insistere su alcune delle osservazioni di Che cos’è la filosofia? nelle quali Deleuze e Guattari rilevano come sia proprio delle città un decisivo effetto di “svincolamento”. È a tale effetto che mi riferisco, consapevole del fatto che non può che “sfigurare”, mostrificare, la soggettività che se ne lascia attrarre. È un rischio o un pericolo da correre, dipende dalle capacità di una sua assunzione concreta oppure dal suo impatto ai limiti dell’ingestibile.

I due studiosi della “letteratura minore” indicano nella città la possibile realizzazione – ancora oggi: aggiungo – di una deterritorializzazione che “si produce in linea di immanenza” (non in “linea di trascendenza”, in “altezza”, “secondo una componente celeste della terra”). Certamente il rimando è alla Polis greca e allo Stato imperiale, ma a me interessa prelevare da tale contesto l’idea dell’“autoctono cittadino”, espressione della “potenza della terra”, che non può che fare appello, a sua volta, a degli stranieri in fuga. Cosa vale insomma dell’esempio classico della Città (e dell’autoctona Atene)? Mi sembra che possa essere ripreso il motivo di una deterritorializzazione che forma, procedendo per immanenza, un “ambito” nel quale si ritrovano figure di libertà e di mobilità, stranieri in fuga, “artigiani” e “mercanti”, dispositivi di intelligenza pratica e sociale e poi anche “filosofi”.

Sappiamo come tutto ciò abbia alimentato delle vicende storiche che hanno portato oggi a vette impensabili di sovradeterminazione dei loro contenuti ma dalle pagine dei due studiosi francesi mi pare opportuno riprendere proprio il motivo dei “filosofi”, che traduco così, dalla parte del rifiuto della servitù oltretutto non più semplicemente “involontaria” bensì accuratamente coltivata: se pensare significa tendere (“un piano di immanenza”: si diceva una volta...), allora si pensa nello “sperdersi”, in ciò che appunto il concetto raccoglie tra la deterritorializzazione e il bisogno relativo – e parziale – del suo riterritorializzarsi, trattenendo quelle relazioni e composizioni che ne costituiscono l’eventuale consistenza interna e assicurano anche la possibilità di collegamenti con altri concetti. Fuoriuscendo però da tale ordine di ragionamento, per ritrovarmi un po’ altrove, con il soffio proprio di un vagante, per riprendere appunto un vagabondo senza riserve (Antonio Delfini), ecco che il pensare si dà come un desiderio di andarsene via, di non fermare semplicemente con le parole l’incanto dell’incognito, del muoversi che si coniuga con l’inatteso anche quando lo si ritiene prevedibilmente sconfortante (e va bene pure così: per/nel vagabondaggio di tutti i giorni, finché ci sarà luce).

Ci sono delle poesie di Paul Celan che ho sempre tenuto presenti e che mi hanno consentito di collegarmi in modo spero non troppo “scolastico” a temi/motivi di antropologia filosofica che tento di sviluppare a partire dai miei studi post-universitari, in Germania. In un articolo su “Alfabeta”, del gennaio 1985, le ho parzialmente riprese all’interno di una riflessione che voglio riportare nelle sue linee essenziali ricordando la concezione della poesia di Celan che la individua come un “discorso” che risulta spesso “disperato”, quasi “impossibile”. Mi ha sempre particolarmente colpito quel movimento che vede il realizzarsi da una parte di un “inaudito processo di introversione del mondo” (Ida Cappelli Porena): un processo che si spinge però fino a una fuoriuscita dal proprio stesso “io” e “il mondo da riprodurre balbettando” si mostra infine per tale “io” come del tutto illeggibile: “illeggibilità di questo/ mondo. Tutto doppio./ Gli orologi poderosi/ danno ragione all’ora spaccata,/ rauchi./ Incastrato nel più profondo di te,/ tu smonti da te stesso/ per sempre”, e dall’altra di una dinamica di tale smontaggio da se stessi colta nella percezione che “tutto sia diverso” (es ist alles anders) da ciò che abitualmente si pensa, si dice, si fa e che forse ci siano ancora vie che conducono là dove “il nome Ossip ti viene incontro, tu gli racconti / ciò che già conosce, egli lo prende, te ne libera,/ a mano, tu gli stacchi il braccio dalla spalla, il destro, il sinistro/ al loro posto attacchi i tuoi, con mani, dita, linee,/ – quanto si staccò ricresce e si salda – ecco, li hai, prenditeli, li hai tutti e due,/ il nome, il nome, la mano, la mano,/ prenditeli per pegno,/ anch’egli si prende tutto questo, e tu hai di nuovo ciò che è tuo, ciò che era suo [...]”3.

Ma bisogna smontare da se stessi. Questo compito/esercizio dello smontaggio – imprescindibile per buona parte del pensiero critico-radicale novecentesco con quel suo peculiare anti-soggettivismo (si pensi esemplificativamente all’allentamento dell’io perseguito da Benjamin) che si traduce anche in una attenzione costante alle trasformazioni antropologiche, alle complicazioni delle pratiche odierne di soggettivazione – a favore di nuove possibilità di composizione, di un respiro vitale appunto differente, è ciò che mi permette un movimento ulteriore in vista del confronto ravvicinato con il motivo del disattivare che appunto trova una prima chiara collocazione all’interno della costellazione teorica dell’antropologia filosofica moderna.


1 Friedrich Nietzsche, Le poesie, trad. it. di A.M. Carpi, Einaudi, Torino 2000, p. 55.

2 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Versi del testamento, in Id., Trasumar e organizzar, prefazione di Franco Cordelli, Garzanti, Milano 2007, p. 116.

3 Paul Celan, Poesie, trad. it. a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. 1109 e p. 491. Sia consentito il rinvio al mio Le scritture dei corpi. Su Paul Celan, in “aut aut”, 228, 1988, pp. 63-85 (ricompreso in Ubaldo Fadini, Configurazioni antropologiche. Esperienze e metamorfosi della soggettività moderna, Liguori, Napoli 1991, pp. 231-259). Una recente testimonianza della mia “fedeltà” a Celan è I passi della poesia. A proposito di Paul Celan e Peter Szondi, in “Antologia Vieusseux”, 86, 2023, pp.95-98.



© Ubaldo Fadini, Disattivare. Un'idea di filosofia, Ombrecorte 2024