Il corpo del condannato: riflessioni sul potere a cura del caso Cospito
Vincenzo Scalia

25.03.2023

La vicenda di Alfredo Cospito, sviluppatasi in questi ultimi mesi, può essere letta su piani diversi: giuridico, politico, filosofico, sociologico, e così via. Vorremmo provare, in questo contributo, a superare una compartimentazione, e a provare una lettura della vicenda corredata da una breve genealogia storica, a partire dalla quale provare a trarre qualche spunto dal quale leggere la ridefinizione del potere in relazione al corpo del condannato.

Nell’età pre-moderna, quando il reato non esisteva, in quanto la violazione della legge coincideva col sacrilegio, ovvero la violazione delle leggi divine, avveniva quello che Michel Foucault (1976) definisce come “l’educazione dell’anima attraverso il corpo”. Se da un lato il condannato era empio, indegno di stare in società, e il suo sacrificio serviva simbolicamente come rito purificatorio, materialmente come processo di estirpazione del male dal corpo sociale, dall’altro lato non veniva negato al condannato lo status di creatura di Dio, che meritava comunque di essere salvata. Le torture che gli venivano inflitte, gli atroci supplizi a cui veniva sottoposto, costituivano, agli occhi degli aguzzini e del pubblico, strumenti di vera e propria redenzione, attraverso i quali il demonio veniva espulso dall’anima del reo-empio. Il rogo, lo squartamento, l’impalamento, e le altre forme di esecuzione, rappresentavano dei veri e propri esorcismi, tanto che venivano eseguiti da e in presenza di personalità ecclesiastiche, con tentativi di confessione e conversione finale annessi. Inoltre, la tortura fisica, era l’unica possibilità di intervenire materialmente sul condannato, dato che è difficile farlo sulla sua anima.

L’irrompere della modernità segna un cambiamento sostanziale nel trattamento del condannato. L’economia politica del corpo si modifica di 360 gradi, passando al processo di “educazione del corpo attraverso l’anima”. Il corpo del condannato è produttivo, sia sotto il profilo materiale che sotto l’aspetto simbolico. Materialmente, i corpi diventano funzionali alla produzione e alla riproduzione richiesti dall’economia di mercato (Melossi & Pavarini, 1977). Per questa ragione, la prigione si connota come spazio di disciplinamento e uniformizzazione, soppiantando misure punitive come la coscrizione obbligatoria e la deportazione. Il corpo va reso docile, per fare introiettare al condannato i paradigmi utilitaristi e produttivisti da utilizzare come mappa cognitiva una volta fuori dallo spazio penitenziario, allo scopo di trasformare le classi pericolose in classi laboriose. Sul piano simbolico, la pena diventa lo strumento di riaffermazione dei principi fondativi di una società (Durkheim, 2000), in particolare nei periodi caratterizzati dalla compresenza di spinte centrifughe, che mettono a repentaglio la convivenza. Ogni sentenza celebrata in nome del popolo italiano, ogni volta che uno stato degli USA celebra un processo proclamando nell’udienza “il popolo della Virginia contro John Smith”, sta rimarcando la linea di confine tra bene e male, tra lecito e illecito, rassicurando i cittadini sul fatto che stanno stazionando nel lato giusto del confine. Il corpo del condannato, in questo contesto, serve a rappresentare e a incarnare l’altro, inteso come uno spazio morale e materiale da non riprodurre, frequentare oppure oltrepassare. In questo contesto, si tenta anche di umanizzare la pena di morte (Garland, 2013). La possibilità per il condannato di presentare appello, lo studio e l’applicazione di tecniche meno inumane, che in realtà fungono da palliativi, la possibilità di pronunciare l’ultima frase, di vedere i familiari l’ultima volta, di consumare il pasto preferito, rappresentano tentativi di sterilizzare e rimuovere una pratica ancora oggi crudele: si pensi alla camera a gas, alla sedia elettrica, alle bolle che si formano nei fili che veicolano la dose letale, al cappio troppo lungo o corto che può trasformare l’impiccagione in decapitazione. In ogni caso, si tenta di rendere la crudeltà metabolizzabile da una società che si vuole più umana.

Nel caso della detenzione di Alfredo Cospito, tutte queste mediazioni, per quanto sterili e ipocrite, sono saltate, producendo un corpo a corpo, letterale e simbolico, tra il potere e il condannato, veicolando presso l’opinione pubblica un messaggio che suona come intimidatorio. Come nel caso di Guantanamo e Abu Ghraib, come nel caso di Julian Assange a Belmarsh, si mette in atto la produzione di distruzione, ovvero una tecnologia di potere votata ad annullare e rimuovere la prassi oppositiva, oltre che a convogliare un messaggio deterrente nei confronti di potenziali oppositori. E’ necessario precisare le differenze tra il caso Cospito da un lato e la vicenda di Assange e quelle dei detenuti di Guantanamo e di Abu Ghraib dall’altro. Assange non ha commesso alcun reato di sangue, come molti detenuti di Guantanamo e di Abu Ghraib. Cospito sta invece scontando una pena per la partecipazione ad atti violenti, all’interno della convinzione che costituiscano il mezzo adatto per approdare a un cambiamento sociale e radicale, approccio dal quale dissentiamo. Non ci preme perciò assimilare i casi in relazione ad una presunta affinità ideologica, quanto al mutamento funzionale che producono rispetto ai dispositivi che il potere mette in atto per gestire il dissenso politico. La violenza commessa da pochi serve da pretesto per reprimere il dissenso, sia preventivamente, etichettando i dissenzienti come violenti potenziali, sia effettivamente, attraverso la negazione dei diritti e delle garanzie all’interno del sistema penale. Nel caso Cospito, pur dissentendo sulle posizioni politiche del detenuto, riteniamo che le garanzie previste dal sistema penale gli vadano riconosciute, e che la loro sospensione o negazione fungano da anticamera per la criminalizzazione di ogni forma di dissenso, anche non-violento, sulla scia di una tendenza che si è prodotta a partire dal G8 di Genova del 2001.

L’ideologia politica a cui Cospito si richiama, ovvero l’anarchia, viene utilizzata strumentalmente per la negazione di ogni prerogativa individuale: nella rappresentazione dominante, gli anarchici negano le istituzioni, le minacciano e le sfidano a mezzo di violenza; quindi, si pongono fuori dal consesso civile. Di conseguenza, uno di loro, non può beneficiare delle garanzie previste dalla legge. Anzi, necessità condanne estreme, come l’ergastolo, e misure afflittive, come il 41 bis. In questo schema, non si tiene conto delle diverse posizioni che sussistono all’interno del mondo anarchico, con la maggioranza schiacciante dei militanti anarchici che non riconosce le posizioni degli anarco-insurrezionalisti, ma si produce una criminalizzazione generalizzata, che giusitifica l’implementazione di misure penali particolarmente repressive.

Il messaggio che si veicola attraverso il caso Cospito è che il dissenso, violento o non-violento che sia, non è ammesso, e che chi arriva ad essere condannato per questa fattispecie di reati non può né essere convertito né reso docile, bensì va incapacitato e annichilito, all’interno di un’economia della pena, così come quella che caratterizza la società contemporanea (De Giorgi, 2001), che mira a rimuovere, dal corpo di una società sempre più dualizzata attorno alla coppia inclusione/esclusione, le eccedenze. In altre parole, bisogna limitare le aspettative e le aspirazioni che vanno in direzione contraria al consumo di massa, o che chiedono di accedervi alla pari dei soggetti inclusi. Un ingranaggio apparentemente collaudato, perfetto, alimentato dal senso comune diffuso a livello mediatico, pronto a fornire linfa vitale a un governo privo di maggioranza effettiva nel paese, depotenziato della sua decisionalità dalle istituzioni tecnocratiche, che usa la penalità (e il revisionismo storico) per costruirsi una minima soglia di legittimità. Stavolta però l’ingranaggio è saltato, perché il condannato ha deciso di riappropriarsi del suo corpo, di non rassegnarsi al progetto incapacitante che il potere aveva sviluppato nei suoi confronti, fino a mettere in discussione la sua stessa sopravvivenza. Il potere, di fronte a questo atto tanto estremo quanto imprevisto di insubordinazione e delegittimazione, reagisce attraverso la negazione ostinata di ogni diritto, facendo leva su inesistenti necessità di proteggere la società da presunti pericoli, nonché sulla sua autoaffermazione auto-referenziale. Gli atti di resistenza, quando non previsti, sanno mettere in crisi il potere. Solo che vorremmo che i resistenti non morissero, e, magari, venissero liberati.



REFERENZE

De Giorgi, A. (2001), Il governo dell’eccedenza, Deriveapprodi, Roma.

Durkheim, E. (2000), La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano.

Foucault, M. (1976), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi.

Garland, D. (1997), Pena e società moderna, Il Saggiatore, Milano.

Garland, D. (2013), La pena di morte negli USA, Il Saggiatore, Milano.

Melossi, D. & Pavarini, M. (1977), Carcere e fabbrica. Alle origini del penitenziario moderno, Bologna, Il Mulino.