Il tradimento ecologico: per un nuovo sentimento giuridico
Stefano Berni
17.03.2024
Q
uando vi sono reati contro lo stato, la comunità, l’ambiente, i beni storici e culturali, non c’è nessun individuo che potrebbe reclamare la giustizia, se non lo stato stesso, che rappresenta la comunità tout court, ma è benevolo, specie nella democrazia, contro tali trasgressioni, anche perché non è stata presentata una denuncia dal cittadino. Chi distrugge un’opera d’arte di un museo o devasta una scuola o incendia una pineta, non trova nessuno che individualmente gli richieda i danni. Tuttavia, colpendo un oggetto di particolare interesse storico o naturale, si colpisce la comunità intera: con un’azione riprovevole, si danneggia non solo un individuo ma molti individui. Si potrebbe parlare, in questo caso, di tradimento? Il traditore non colpisce, con la sua azione, una persona coinvolta, come si suppone erroneamente, in un rapporto affettivo: l’affetto, infatti, non può essere collegato a una promessa (la quale ha natura razionale) che si possa mantenere durevolmente. Di fatto, a prima vista, la giustizia ecologica non sembra avere una relazione con il tradimento se per tradimento intendiamo la rottura del rapporto fiduciario con una singola persona. Infatti da un punto di vista personale, io potrei anche perdonare chi ha ucciso un mio parente o devastato la mia casa. La scelta dipende dalla mia coscienza. In questo ultimo caso si è offesa la nostra personale sfera affettiva.

La parola tradimento in questi casi non rende giustizia della gravità del danno ecologico. L’etimologia del verbo tradire infatti si riferisce a consegnare sé stessi ai propri nemici, ma tradire significa anche arrendersi o cedere una parte del territorio che apparteneva alla propria comunità. Esso rinvierebbe, dunque, originariamente, a un comportamento sbagliato o nocivo rispetto alla propria comunità. Per traslato, tradire può significare: venire meno ad un patto, disattendere alla parola data, perdere la fiducia di qualcuno. Di conseguenza il tradimento può anche significare: ingannare, agire scientemente contro la comunità che invece ti ha nutrito.

Anche nelle società pastorali e guerriere era fondamentale poter contare sulla lealtà del socius per poter sopravvivere, e per questo, nel mondo greco la vendetta andava consumata prima possibile: non poteva essere procrastinata più di tanto. È evidente invece che nella nostra società, lo stato è intervenuto come mediatore per risolvere i conflitti tra privati. Ma, nel caso del tradimento ecologico, se lo stato deve tutelare sé stesso, rappresentando l’insieme di individui, come può reagire emotivamente attraverso la giustizia? I cittadini stessi, non essendo direttamente coinvolti di fronte a reati contro il patrimonio, non provano un sentimento di disapprovazione o di sconcerto di fronte a reati che li colpiscono solo lontanamente.

Eppure, il tradimento, per chi lo subisce, procura spavento, crea un trauma, perché non ci si aspetta, da colui a cui si è riposta la fiducia, che ti tradisca. La vittima reagisce con la razionalizzazione del trauma, cercando una giustificazione, un motivo per la quale ha subito ingiustamente un torto. Anche un bambino, abbandonato o percosso, si domanda se la colpa sia sua. Pur di giustificare il tradimento, spesso lo convergiamo su noi stessi. Siamo pronti ad amare i carnefici a giustificare i colpevoli. A dimenticarsi delle vittime. Come ci spiega la psicoanalisi, interviene la compensazione, l’angoscia, il sogno che hanno una funzione riparatrice, per riequilibrare la nostra psiche. Ma anche la reazione aggressiva svolge la stessa funzione: attraverso le grida, il pianto, la rabbia, i colpi sul proprio petto o contro la persona che ti ha tradito, si scarica la tensione per l’ingiustizia subita. La giustizia/vendetta ha una funzione riparatrice rispetto al tradimento. Si deve spaventare l’altro che ci ha spaventato.

Forse, allora, dovremmo recuperare il senso più profondo del sentimento di giustizia, parlando più propriamente di tradimento proprio quando viene colpita l’intera comunità. Il tema non riguarda tanto l’aspetto psicologico, ma antropologico. Non è neanche un problema genericamente politico. Non si tratta di difendere lo stato: nessuno ha firmato un accordo esplicito con le istituzioni, non si tratta di difendere ideologicamente la patria, la nazione, la comunità religiosa. Si deve difendere invece la comunità dal pericolo che un individuo la possa minacciare e minacciandola metta a rischio la vita dei singoli. Il problema, prima ancora che politico, è dunque antropologico. Chi trasgredisce le leggi della collettività, colpendo l’ambiente, la natura, la cultura, i monumenti storici, decide di entrare in guerra contro le istituzioni che rappresentano tutti i cittadini di quella comunità. A meno che non si creda che quel particolare stato non ci rappresenti, ma allora perché non colpire i rappresentanti delle istituzioni stesse e non la casa e la terra dove tutti noi abitiamo?

Insomma, alla base di ogni società vi è sempre sotteso un principio morale di lealtà vs tradimento che molti non vedono o fingono di non vedere, ma che permette la coesione antropologica di ogni comunità. È vero che il tradimento (politico, culturale, individuale) è stato talvolta anche necessario per fondare nuove comunità, perché esso simboleggia la rottura con il passato, l’autonomia e la presa d’atto di un nuovo ordine sociale rispetto alla generazione precedente, ai propri padri o fratelli. Tuttavia fin dall’antichità, chi tradiva, veniva bandito, diventata homo sacer, uccidibile e sacrificabile. Primariamente era il gruppo, il clan che reagiva e espelleva il traditore.

Ciascuno di noi ha interesse affinché, chi costruisce una casa, un palazzo, una strada, lo faccia bene, altrimenti mette in pericolo la vita degli altri. Chi deliberatamente costruisce una casa sulla sabbia o inquina i fiumi e i mari o incendia un’intera foresta, commette il reato più grave perché lo commette contro molti individui e tutti potrebbero o vorrebbero vendicarsi contro di lui. Questo è ciò che io chiamo il tradimento. E non consiste tanto nel rompere il patto sociale, o giurare il falso, quanto nel mettere a repentaglio la vita di altri. Non interessano le sue intenzioni, se è uno è un piromane, un malato, un soggetto psicologicamente labile, se lo fa per soldi o per una “giusta causa”. Ogni azione che danneggia l’ambiente in cui viviamo è di per sé patologica, perché ha rotto il patto implicito basato sulla fiducia e sul rispetto dell’intero ecosistema. Un poliziotto che si vende alla mafia, un medico che salta i turni, un politico corrotto, un cittadino o un’impresa edile che scarica rifiuti tossici in un fiume, sono traditori non rispetto ad una morale o una promessa non mantenuta, ma perché mettono in pericolo la vita degli altri consociati. Uccidere un uomo è un reato meno grave che inquinare un fiume, perché in quest’ultimo caso si mette a repentaglio la vita di migliaia di persone e delle generazioni future che verranno. Il tradimento, da sempre è (e dovrebbe essere) considerato il reato più grave. Dante lo aveva ben compreso e, correttamente, poneva i traditori nel punto più profondo dell’inferno.