La Calabria e l’utopia. A partire dal «Musaba»
Gianluca Viola

14.10.2023

In un lembo di paese in cui la storia ha tradito il mito, dove scendendo verso sud la terra pare abbandonarsi alla dolcezza del mar Ionio e, dal lato opposto, conserva conoscenza dell’asperità della montagna, nei pressi del piccolo centro di Mammola - celebre per la lavorazione dello stocco -, sorge, quasi improvvisamente, su una rupe, una delle più interessanti esperienze artistiche del secondo Novecento italiano, il parco-museo «laboratorio vivo» Musaba, costruito sui ruderi di un antico monastero basiliano al principio degli anni ’70 dall’artista calabrese Nik Spatari e da sua moglie, l’olandese Hiske Maas, artista a sua volta, nonché modella per alcune delle migliori tele del marito.

Uomo poliedrico ed affascinante, Spatari, originario proprio di Mammola, subì, da un lato l’influenza quasi primitiva e a tratti arcaica del passato remoto della Calabria, quel passato immemoriale nel quale è celato tanto l’enigma della civiltà quanto l’eco, mai sopito, del selvaggio – una delle sue pubblicazioni è dedicata a L’enigma delle arti asittite nella Calabria ultra-mediterannea (Iriti, 2002) – e, d’altro lato, dell’ambiente artistico parigino degli anni ’50 e ’60, in cui conobbe Picasso, Jean Cocteau, affinò il suo sapere in architettura frequentando lo studio di Le Corbusier; ciò ne fa un artista moderno a tutto tondo, ovvero capace di mantenere un rapporto incisivo con il passato, che non faccia di esso solamente un «morto possesso» ma possa instaurare un dialogo fecondo, in grado di concedergli una «nuova vita», esercitando, in tal modo, quella che Merleau-Ponty ha definito, con una splendida formula, «une forme noble de la mémoire».

Il parco è stato pensato, fin dai primi anni della sua istituzione, sul modello delle botteghe rinascimentali o anche delle botteghe artigiane di contesti più popolari, come un luogo, insomma, nel quale collaborano alle creazioni artistiche di volta in volta realizzate un certo numero di allievi, guidati e coadiuvati dal maestro; alcuni dei piloni della strada statale sotto la quale bisogna transitare per recarsi alla rupe su cui fu eretto il monastero, accanto al letto prosciugato del Torbido, sono stati decorati proprio da giovani «garzoni». Numerose le opere di grande valore disseminate nei sette ettari di questo laboratorio en plein air, talune realizzate da artisti stranieri, visitatori anch’essi del parco e rimasti particolarmente convinti dal progetto; il pregio maggiore deve essere riconosciuto però al vero capolavoro di Nik Spatari, l’affresco tridimensionale – le figure umane sono dipinte su «silhouettes» di legno poi apposti come bassorilievi – che adorna abside e volta dell’ex chiesa di Santa Barbara, definito Il sogno di Giacobbe, nel quale vengono ripercorsi gli eventi biblici legati alla storia di Giacobbe, la nascita, la rivalità con il fratello Esaù, l’amore infelice per Rachele e Lea, le diverse prove cui Dio lo sottopone, fino alla morte, avvolta da un alone di mistero.

L’esplosione di colori e l’anatomia di quei corpi come sospesi nell’aria – corpi, come ha ammesso lo stesso Spatari, sfruttando la definizione dell’opera quale Cappella Sistina calabrese, rappresentanti di «un’umanità assai diversa da quella michelangiolesca», corpi «meno gonfi, più tesi, più dinamici», innervati da «un’energia, forse anche una sofferenza, sconosciute alla gente del Rinascimento» - rendono l’affresco un’intensa meditazione sul tema del doppio, sulla distanza tra cielo e terra, fra la tragedia umana e il mistero ineffabile del divino; assai significativo è che l’affresco sia dedicato appunto a Michelangelo «astronauta della Sistina» - ancor più significativo che Michelangelo sia, fra le altre cose, l’artista del non-finito, se pensiamo all’altro capolavoro presente nel parco, il grande mosaico nel chiostro della Foresteria, rimasto incompiuto alla morte di Spatari, nel 2020; e se pensiamo, anche, a quanto quel non-finito magnifico strida con il non-finito calabrese degli edifici, simbolo della cattiva gestione e dell’incuria cui la regione è stata costretta fin dal principio della Repubblica – e, insieme, a Tommaso Campanella, il frate domenicano di Stilo del XVI secolo, autore della Città del Sole, trattato filosofico a carattere utopistico. Proprio all’utopia, del resto, è stata più volte accostata l’intera esperienza del Musaba: utopia di un esperimento di arte contemporanea nel cuore della Locride, utopia di due artisti innamorati l’uno dell’altro e innamorati della loro arte, utopia, per i giovani che hanno partecipato a quei progetti, cui è stata data la possibilità d’esprimere la propria creatività dove sono ben poche le alternative in questi settori, utopia infine, per i visitatori che, numerosi, si recano sulla rupe; l’utopia è, di fatti, ciò che il Musaba indica oggi alla Calabria intera.

L’utopia di Campanella – come quella di Thomas More, come quella di Francis Bacon – era pensata a partire da un duplice sentimento: l’aspirazione verso un cambio radicale di prospettiva riguardo alle questioni sociali e all’organizzazione delle comunità conviveva con la volontà di rifugiarsi in quest’irrealizzabile aspirazione, fuggendo l’esistente e le sue miserie; questo secondo aspetto pare adattarsi particolarmente alla Calabria, se diamo ragione ad uno dei suoi migliori scrittori che, al termine del suo Itinerario Italiano, ritornava ancora una volta a casa e poteva affermare: «La fuga è oggi il tema della vita calabrese. […] Fisicamente o fantasticamente, la Calabria è oggi in fuga da se stessa. Senza dramma, senza rancore, con la forza di un fenomeno della natura, la Calabria reagisce con tutte le sue risorse a una condizione inferiore o servile. Con tutte le sue dure energie, cerca una condizione in cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino» (C. Alvaro, Un treno nel Sud, Rubbettino, 2016, p. 87).

Fisicamente, la fuga calabrese si è concretizzata nell’emigrazione, nell’abbandono della terra natìa, in un’erranza che assume talvolta i contorni sinistri dell’esilio; fantasticamente, questa fuga si traduce in un costante mancare, della Calabria, alla storia, un voltare le spalle all’attuale tanto più ambiguo in quanto mai trasportato sul piano delle contraddizioni reali e delle conseguenti lotte per la loro risoluzione: più che di una fuga a gambe levate, si tratta di un divincolarsi silenzioso, a piccoli passi, sempre più incerti. Il realismo, però, non consente a questa fuga se non una momentanea fantasticheria, un sogno ad occhi aperti presto concluso con un brutale ritorno alla veglia, in cui la Calabria è privata di qualsivoglia contenuto utopico e, allo stesso tempo, di ogni progetto reale di trasformazione. Affacciandosi sulla sua condizione reale, alla Calabria, di questa fuga, non rimane se non qualcosa d’inafferrabile, qualcosa che sfugge a sua volta, non lasciandosi pienamente fissare. Né fisicamente, né fantasticamente la fuga riesce a pieno: in entrambi i casi, si rimane inchiodati al peso dell’identità, stretti nelle maglie di una tradizione tradita, di un «morto possesso» del passato individuale e comunitario; l’essere invade così il campo del divenire e si presenta in quanto inaggirabile destino, spinta inconscia diretta all’indietro, verso un’origine spettrale, capace d’infestare il presente.

Un luogo come il Musaba svela, all’opposto, un altro senso del passato, in accordo al pronunciamento di Ernst Bloch, secondo cui: «Si credeva di aver scoperto che tutto ciò che è presente è carico di memoria, di passato, nella cantina del non-più-conscio. Non si è scoperto che nel passato, anzi anche in ciò che è ricordato, c’è uno slancio e una frattura, un covare e un anticipo del non-ancora divenuto», giacché «se l’essere si comprende in base alla sua provenienza, lo fa però soltanto considerandola come una meta ugualmente carica di tendenza e non ancora raggiunta» (E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, 2005, pp. 15-23). Siamo nuovamente nei pressi dell’utopia, ma di un’utopia concreta, nella quale il «non-ancora-divenuto» coincide, in Calabria, con il suo stesso essere, dacché essa, oggi, è ancora tutta da inventare. La condizione che la Calabria cerca, mediante la sua fuga, non pare però esser sollevata dal vento della speranza, dell’apertura fiduciosa al «novum»: se vi è un sentimento ad essere imperante esso è più disperazione che speranza; è qui che il «pensiero meridiano» incontra il pensiero tragico, la volontà d’esser soggetto si scontra con l’ineluttabile, il magma del cambiamento affonda nelle strutture immobili. Questa non è una contraddizione: l’apice della disperazione è il nucleo vivo della speranza maggiore, ed essa è ancora utopia, è ancora l’assillo di «superare il decorso naturale del mondo», è ancora un appello, benché confuso, al venire di ciò che viene.

Questo desiderio è ancora giovane, ma lo slancio da esso suscitato non si esaurisce in una qualche acrobazia: esso insegna, piuttosto, a camminare. Il Musaba dimostra che l’utopia non è una terra di sogno, bensì una prassi, un reidratare le radici affinché le foglie non appassiscano; essa guarda all’avvenire dei fiori e dei frutti, a un uomo che ancora non c’è, a una patria che ancora non c’è.