La filosofia italiana dopo i dibattiti sul Covid
Manlio Iofrida

12.03.2022

1. Un bel libro recente (AA.VV., Per non farla finita con la filosofia, a cura di Ubaldo Fadini, editrice Clinamen, Firenze 2021) ha riproposto il tema «che cos'è la filosofia?», un interrogativo che investe questa disciplina fin da quando è nata; ma le circostanze in cui viene riaperta questa questione sono molto legate alla nostra attualità italiana e alle polemiche che la gestione politica e sanitaria del Covid hanno generato: penso, in particolare, alle posizioni assunte da Agamben, Cacciari e dal gruppo DUPRE, coordinato da Francesco Mattei.

È certo inquietante pensare che una sezione importante della filosofia italiana, e di quella che si è sempre detta critica, abbia assunto delle posizioni così ambigue politicamente e così dubbie sul piano teorico: come è possibile che si sia arrivati a posizioni di questo genere? E che rapporto c’è fra tale posizionamento e lo stato complessivo della filosofia, del dibattito filosofico internazionale? ù

Nel cercare di rispondere a questi interrogativi, all'interno del libro or ora citato, riprenderò in particolare il saggio di Stefano Righetti Alla ricerca dei vecchi, bravi “cattivi maestri”. Ovvero sull'urgenza di una liberazione ecologica dall'ontologia (pp. 35 e sgg.), che mette decisamente in discussione alcune svolte cruciali della filosofia italiana e europea fatte a partire dagli anni Ottanta.

A proposito del primo punto, ribadito che parliamo solo di un settore del pensiero italiano, e che la maggioranza si è dissociata da quelle posizioni, bisogna però osservare che l’esposizione mediatica di alcuni membri del gruppo ha spesso determinato l’identificazione delle loro posizioni con “la” filosofia in generale.

Un’altra precisazione importante è che Agamben, Cacciari e altri del gruppo sono geneticamente legati all’operaismo italiano, uno dei pezzi più originali del pensiero italiano degli anni sessanta; e quindi, l'attuale situazione ci permette di misurare il punto di caduta non di tutto, ma di un settore di questo filone sessantottino e di alcune correnti filosofiche che lo hanno ispirato, e cioè un certo Heidegger, un certo Schmitt, un certo Nietzsche, una certa filosofia francese - dove si ripete la determinazione «un certo» per sottolineare come tutti questi autori e filoni di pensiero abbiano subito una torsione molto particolare (che è poi quello che giustifica la qualifica di tutto questo come pensiero italiano). Ma, se le cose stanno così, vuol dire che la crisi di questo pensiero può essere intesa solo se ci si riporta alla forma che questi filoni dell’operaismo avevano assunto fra gli anni ottanta e Novanta.

Se vogliamo mettere a fuoco quello che sta succedendo oggi, dobbiamo tornare a quell' epoca e alla crisi che, a sua volta, l'aveva generata: quella della cultura del comunismo italiano, ma anche della cultura marxista «extraparlamentare» e post-sessantottina. La cultura del PCI dominò il nostro dopoguerra fino al '68 e oltre, quella extraparlamentare ebbe un notevole significato fra il '68 e la metà degli anni 70.

A quel punto, come si sa, ci fu un crollo verticale del marxismo storicistico e anche di quello antistoricistico, in corrispondenza col rapido imporsi dell' egemonia neoliberale; ma il declino della cultura precedente non fu un fatto solo negativo: fra la fine degli anni '70 e gli anni '80, e anche per buona parte degli anni '90, ci fu effettivamente il sorgere di una nuova filosofia italiana, così come ci fu, col cambiamento politico e culturale di quegli anni, una notevole funzione e un certo protagonismo della filosofia, che rivendicarono con forza e con un lavoro che fu spesso significativo la sua autonomia e l'esigenza del suo rinnovamento.

Oggi - e gli ultimi eventi confermano una tendenza che si è prolungata per il primo quarto del XXI secolo - ci rendiamo conto che questo protagonismo ritrovato della filosofia ha avuto aspetti positivi, dei veri e propri punti di non ritorno, ma anche degli aspetti negativi, il formarsi, nella nostra cultura critica, di alcuni punti ciechi, di non visibilità, che prepararono il rovesciamento di una parte del pensiero critico in una vera e propria ideologia giustificativa dell'esistente; un'analisi storica di quel che accadde in quegli anni ci può far restituire la complessità, la densità e, certo, anche la profonda ambiguità di questo nodo degli anni 80-90.

Per esprimerci in modo troppo semplificatorio, ma chiaro: in principio, si trattò del '68 e della sua esigenza di ritrovare le fonti autentiche dell'idea di liberazione e del marxismo in particolare. Il marxismo ufficiale del PCI aveva dato luogo a una visione troppo razionalistica e illuminista, lasciando in una posizione subordinata e secondaria filoni importanti della cultura europea come la fenomenologia, Nietzsche e Heidegger.

A mettere in crisi il compromesso gramsciano-crociano-neorazionalistico, a porre l'esigenza di disoccidentalizzare il marxismo e di recuperare gli aspetti «coloniali» (nel senso del postcoloniale) del pensiero di Marx era stata la grande «rinascita» che aveva investito il mondo occidentale (e non solo) alla fine degli anni 60.

Non solo la Scuola di Francoforte, ma un complesso di istanze che erano state tipiche della cultura europea del Novecento e che il marxismo non solo non aveva convogliato, ma aveva avversato, venivano di nuovo in primo piano con la crisi dello stalinismo e del modello sovietico, ma anche dell' equilibrio del capitalismo keynesiano: Proust e Joyce, la lezione di Bataille e dei surrealisti, la filosofia antipositivistica e antimeccanicistica legata alla nuova scienza novecentesca imponevano quadri mentali meno angusti, un approfondimento della critica della modernità che eccedevano il razionalismo illuministico in cui si era confinato il marxismo, più o meno ortodosso, del movimento comunista.

Diciamo subito un limite di questa «rinascita» politico-culturale italiana post '68: ci fu, certo, un'aria nuova che spirò su tutta la filosofia, così come su tutti i campi della cultura; ma buona parte del nuovo andò sotto l' ipoteca di un primato assoluto della politica, che si congiungeva alla ripresa di un' idea mitica di rivoluzione, ancora condizionata largamente dal modello leninista, interna alla visione fichtiano-giacobino-roussoviana di un'umanità che si fa padrona assoluta del suo destino e del mondo.

In questo, il ’68, e non solo quello italiano, rinnovava tutta la problematicità di quella istituzione della modernità che fu segnata essenzialmente dalla Rivoluzione francese. Nella seconda metà degli anni 70, quando, fin dal 1976, la sinistra extraparlamentare italiana entrò in crisi e le difficoltà del vecchio schema rivoluzionario cominciarono a farsi evidenti, il movimento raggiunse probabilmente il suo punto più alto dal punto di vista teorico con Crisi della ragione, il volume che Gargani curò nel 1978: qui il discorso critico verso la tradizione marxista non aveva ancora nessuna ambiguità politica, la critica al marxismo non sottendeva furbesche aperture a posizioni apologetiche; si trattava, non di attenuare, ma di approfondire e affinare la tradizione critica del pensiero alternativo al capitalismo, passando da una ragione cartesiana e oggettivistica che era era largamente dilagata nel marxismo e facendo seriamente i conti con gli esiti del socialismo reale e con gli appesantiti schemi di tutta la tradizione del movimento operaio.

In questo quadro, si capisce che potessero giocare un certo ruolo positivo anche Nietzsche e Heidegger (ma tornerò meglio su questo quando parlerò della situazione francese, dello strutturalismo ecc.). Di lì a poco, però, la musica cambiò: nel 1979 era uscita La condizione postmoderna di Lyotard, che vedeva nel capitalismo statunitense un modello molto più favorevole per una liberazione che era vista come frutto di una mera lotta individuale, liquidando con un colpo solo la tradizione, non solo marxista, ma europea e liberal-democratica, che avevano convogliato le «grandi narrazioni» incardinate sui concetti di collettivo, storia, libertà sovraindividuale.

In Italia, il discorso di Lyotard ebbe un grande seguito, nel mentre che il PCI cominciava a agonizzare e la lotta alla FIAT veniva spazzata via dalla marcia dei 40000. A questo punto, avvenne un fatto decisivo per la filosofia italiana, in specie, ma non solo per quella politica: attraverso alcuni esponenti dell'operaismo (ripeto: non parlo del complesso di questa importante galassia di pensiero tutto italiano) Schmitt, Heidegger, Nietzsche vennero posti come veri e propri sostituti del marxismo nella interpretazione della modernità.

Il moderno andava letto secondo le categorie dello stato di eccezione, dell' avvento destinale dell'Essere, della volontà di potenza, categorie che convergevano in un' idea di politico che si faceva razionalità perfetta e inossidabile; sullo sfondo, il nichilismo e una teologia del negativo che non erano quelle di Kracauer e di Adorno, ma preferivano lo gnosticismo dello Heidegger peggiore; poco importa vedere come poi questo (assai povero) insieme di idee potesse dar luogo a posizioni politiche fra loro differenziate: a rifiuti totali (come Agamben) o adesioni che oscillavano fra l'adorazione verso il nemico e un’adesione con intimo disprezzo (come è il caso delle posizioni che volta a volta assunse e assume ancora Cacciari); quello che conta è che questo tipo di cultura nichilistica e totalizzante si privava di ogni elemento critico dall' esistente: si faceva mera apologia. Un tale uso di Schmitt di Nietzsche, di Heidegger è la filosofia che ha fatto da conserva allo sfarinamento della sinistra italiana, al passaggio dal PC al PDS al PD; è la filosofia che si faceva cura di sé, ripiegamento sul soggetto, counseling, riscoperta di tutte le dimensioni new age, adattamento in tutti i modi alle tendenze del mercato.

D' altra parte, anche il settore della filosofia italiana apparentemente avverso a questo, quello del pensiero debole di Vattimo e altri, non faceva che sviluppare una posizione complementare: sempre di Heidegger e di Nietzsche si trattava, sempre di annullamento del reale in un mondo linguistico e completamente costruito, con la sola sostituzione di un vocabolario di ottimismo a quello tragico del filone operaista precedente.

Che bilancio fare fra anni 60-70 e anni 80-90? Rompendo col politicismo esasperato dei primi i secondi si proponevano una filosofia che il '68 (nell'ombra del marxismo) aveva obliterato. E, criticando il modello della rivoluzione, apriva un po' di più all'ecologia. All' inizio, questi aspetti non avevano obliterato le punte alte degli anni 60-70: l'apertura all'antropologia e la critica all’occidentalismo, l' inizio di una consapevolezza ecologica.

Ma gli anni '60-70 avevano tenuto fermo alla rivendicazione della filosofia come rapporto irriducibile al reale e non erano caduti nella trappola del linguistic turn: il modo in cui gli anni '80-90 introducevano Nietzsche e Heidegger era sulle tracce di una sconfitta, era nel senso di ammettere che ormai il mondo era stato fagocitato definitivamente della razionalità capitalistica: questa diagnosi così pessimistica, che era la conseguenza del fallimento dell'idea cosi borghese della rivoluzione totale e definitiva, del comunismo come fine della storia, comportava di fatto la fine di ogni lotta per un mondo migliore e, insomma, di ogni autentica critica. (continua)