L’abisso come corpo esposto: En abyme di Tolja Djokovic
Sara Sermini

19.11.2022

[Il 27 e 28 giugno 2022, presso la Sala d’Armi dell’Arsenale di Venezia, ha avuto luogo la mise en lecture, diretta dalla regista Fabiana Iaccozzilli, di En abyme, un testo scritto da Tolja Djokovic, vincitrice della Biennale College Teatro Autori Under 40 (2021-2022). La lettura, andata in onda anche su Radio 3 Rai, è stata ospitata dal Piccolo Teatro di Milano il 23 settembre scorso nell’ambito del progetto ‘Palcoscenici in formazione’.]

Cos’è l’abisso? Chi ha assistito alla mise en lecture di En abyme è uscito dalla sala forse con questa domanda. Ciò che ha visto è una scena pressoché spoglia – due tavoli, quattro sedie, quattro microfoni, due attrici e due attori. In quello spazio volutamente minimale, chi era lì ad ascoltare ha però visto accadere qualcosa. Il testo di Djokovic è infatti capace di innescare, attraverso quattro voci che si alternano, nitide visioni di un abisso plurale.

Ciò che appare nella mente dello spettatore è anzitutto un abisso geograficamente collocabile, ovvero l’Abisso Challenger nella Fossa delle Marianne, la depressione oceanica più profonda della terra, dove il regista James Cameron si è immerso con un sommergibile verticale, raggiungendo il record di immersione. Poi c’è l’abisso interiore, quello abitato da una figlia e da un padre, nelle stanze di case sempre sul punto di essere spostate altrove, o nelle quali gli oggetti impolverati e consumati fino all’osso hanno il silenzio dei relitti abbandonati sul fondo del mare. Infine c’è l’abisso del dispositivo drammaturgico, decostruito e mostrato nel testo di Djokovic, in una resa concreta del gesto che trova la sua sintesi nella nota formula: mise en abyme. L’operazione che compie Djokovic è portare gli abissi in superficie, mostrare come essi si nascondano nelle pieghe della realtà. In questo senso, l’abisso è superficie ricettiva.

Incominciamo dall’abisso del dispositivo, che ha una restituzione immediata nelle note alla drammaturgia, lette in scena dalla stessa autrice:

"Quello che si presenta è un dispositivo drammaturgico con l’intento, nei confronti della messa in scena, di depositare sulla pagina materiali il più possibile manipolabili che offrano, per come sono strutturati, la possibilità di essere detti, proiettati, agiti, ascoltati, ridotti a simbolo (e così via). Il testo offre delle soluzioni possibili, la regia e chi è in scena possono accoglierle o meno".

Come è anticipato nelle note iniziali, i personaggi sono quattro e del tutto atipici: quattro voci narranti, i cui nomi esplicitano la funzione che ricoprono, corrispondente ai diversi livelli della narrazione. C’è una VOCE-DIDASCALIA, che illustra ciò che dovrebbe svolgersi sulla scena, i movimenti e i gesti di una bambina e di una donna; c’è l’OCCHIO di una telecamera, che descrive gli spazi in cui agiscono una figlia e un padre, in una dimensione insieme presente e passata; c’è IL DOCUMENTARIO, che racconta la storia della scoperta della Fossa delle Marianne e i tentativi di discesa fino alla missione di Cameron del 2012; infine c’è MARIANNE, una voce-corpo di donna che conosce l’abisso o che, forse, è la voce dell’abisso stesso. Le prime due voci, interpretate rispettivamente da Simone Barraco e Oscar De Summa, si disputano la descrizione delle visioni, le altre due voci, impersonate da Evelina Rosselli e Francesca Farcomeni, la narrazione della discesa nell’abisso. Ne risulta una costruzione stratificata: la contesa tra le voci ritma un flusso continuo in cui immagini, azioni, suoni e parole dialogano costruendo sensi inediti. Se il/la regista – come da indicazioni dell’autrice – può montare liberamente i materiali per la messinscena, a sua volta chi ascolta o legge la drammaturgia può decidere se ricomporre le voci che sente o abbandonarsi a una vertigine di senso.

Ancor prima del movimento d’immersione, nella drammaturgia di Djokovic è essenziale lo spazio cavo dentro il quale cose e persone si immergono: è l’oceano oppure il pavimento della «piscina comunale» che «cola a picco in una voragine scura», descritti dal DOCUMENTARIO e dall’OCCHIO, ma è anche lo spazio degli interni che l’occhio della mente costruisce; sono i tanti buchi nei maglioni del padre. Ed è infine lo spazio scenico narrato dalla VOCE-DIDASCALIA:

"Dalla fessura dello schermo, in mutande e canottiera, passa una bambina. Inciampa e per un momento rimane a terra, poi si alza e va verso la cucina. Apre la porta del forno ed esce un’onda d’acqua. Tira fuori vari oggetti finché non trova una scodella".

Lo spazio d’immersione è dunque il dispositivo stesso: è la «fenditura che apre un passaggio», lo «squarcio sullo schermo», illuminato da un proiettore sulla scena e che separa l’ambiente in due zone, connettendole al tempo stesso; sono gli schermi che appaiono di continuo e sui quali sono proiettati spazi ulteriori, come gli abissi marini, le foreste che bruciano, una donna che nuota in una piscina; è un film visto infinite volte in Tv e che racconta di un’altra immersione. Sulla musica di Titanic, film diretto dallo stesso James Cameron quindici anni prima della missione oceanografica nella Fossa delle Marianne, si innesta infatti l’intelaiatura sonora, realizzata da Tommy Grieco e pensata da Iaccozzilli come una quinta voce. Ai primi suoni si accompagnano le parole di una celebre scena del film, in cui la protagonista anziana, Rose, riconosce il suo ritratto recuperato dalla carcassa della nave:

Lovett: Alright. You have my attention, Rose. Can you tell me who the woman in the picture is?
Rose: Oh yes. The woman in the picture is me.


Sin da subito è messo a nudo l’enigma del riconoscimento: lo sguardo, in un movimento di prossimità e distanza, proprio come l’occhio di una telecamera, inquadra un se stesso passato, insieme reale e immaginario a tal punto da diventare immaginifico. L’immagine dischiude la possibilità delle immagini. E così queste si alternano e si rigenerano, l’una dall’altra senza che gli occhi del pubblico vedano niente, soltanto attraverso la tessitura delle voci.

Come Rose nel film Titanic, anche la bambina descritta dalla VOCE-DIDASCALIA riconosce se stessa, si fa essa stessa occhio, indossando una piccola videocamera sulla testa, attraverso la quale riprende una donna. Le proiezioni sulla scena si moltiplicano, ci sono uno schermo grande, una tv e una bambina con una videocamera; lo zoom si stringe su un dettaglio che si fa macroscopico: «due nei, uno piccolo e uno grande, sull’arco plantare interno del piede destro». Sono gli stessi nei che ha anche il padre nello stesso punto del piede destro, gli stessi nei che affioreranno dalla voce di MARIANNE, l’abisso che tutto conosce. La bambina e la donna sul palco, raccontate dalla VOCE-DIDASCALIA, si corrispondono, entrambe sono anche una donna più grande, inquadrata dall’OCCHIO, e sono, infine, MARIANNE, l’abisso che prende la parola per narrarsi. E siamo anche noi che, una volta scoperto l’abisso, ci ostiniamo a volerlo esplorare, a voler andare a fondo, nella «depressione che sfida». Si può ingoiare ciò che non si vuole ingoiare, e Djokovic ce lo fa vedere, ci mostra il boccone più amaro «che sprofonda nello stomaco» come la minestra che non si vuole mangiare, come le cose che vanno giù nel mare: «Si sente fortissimo il tonfo di qualcosa che atterra sull’acqua, poi il rumore della cosa che affonda». Le voci si alternano, le immagini si espandono. A chi ascolta restano tracce che permettono di connetterle: due nei su un piede, un pesce, un fiotto di sangue, un cane, due denti incisivi; ma quando si afferra un dettaglio e si crede di capire, subito si è travolti da un’altra immagine e l’enigma rimane lì, latente e sottile, palpabile. In questo abisso ci muoviamo anche noi; è un mondo misterioso, inconfortevole, buio e conosciuto. E dentro a quel fondo senza fondo, lì, osserviamo la resistenza del pesce lumaca, in grado di vivere «a più di 7.000 metri sotto il livello del mare», o quella delle diatomee, «alghe unicellulari» rinvenute anche nella Fossa delle Marianne – spiega IL DOCUMENTARIO – che sopravvivono «in ambienti estremi: zone glaciali, lagune ipersaline, e i corpi dei morti annegati». Allo stesso modo la bambina-donna ha resistito, finché non ha imparato il trucco: osservando la tecnologia del sommergibile si scopre che è possibile riemergere in una maniera quasi istantanea. Sembra semplice: basta sganciare i pesi, lasciarli andare sul fondo.

"IL DOCUMENTARIO: Il sommergibile è stato costruito con tecnologie raffinate e materiali avanguardistici, ma la tecnica principale nella discesa e nella risalita è di una semplicità primordiale: a tirare giù il veicolo sono tra i 200 e 700 chili di pesi in acciaio, a seconda della profondità di immersione. Lasciando cadere le zavorre il sottomarino schizza verso la superficie".

L’emersione avviene sul palco, attraverso lo squarcio sul grande schermo, descritto dalla VOCE-DIDASCALIA, che divide la scena in due ambienti, in due tempi. L’abisso di Djokovic è anche il teatro della mente, dove agiscono due donne, distinte nella finzione teatrale, ma che sono in realtà la stessa identica donna e infinite donne: entrambe sono cadute sul fondo, entrambe hanno picchiato la faccia, a entrambe mancano i denti incisivi. Ed è anche MARIANNE, la voce dell’abisso senza fondo, a dire l’emersione. Un’emersione immaginifica, in versi:


Mi arrendo, saluto, lascio andare le dita che stringevo forte
tra le mie, e vengo spinta via dal mio corpo con violenza,
da donna divento donnola, topo, poi uomo, delfino dirupo
scarpata poi melo, serpente e bambina, anguria col fiore, un
vecchio signore coi baffi, talea, un motore, sasso di fiume,
bambino neonato, dentice, prato, lavanda, prima ministra,
alga, anguilla, [...]
poi sciolta in lamelle di luce, riflesso di cose non cose, mi
trovo insieme dispersa e riposta: sono solo pupilla, occhio,
sguardo totale, presente, che sale, che sale, che tiene
insieme, intera, una visione globale, del tutto
tridimensionale della Terra, del mondo, del tempo.
Respiro. Mi fermo un secondo a guardare quanto la Terra
sia fatta ancora di mare.


Djokovic ha composto un dispositivo drammaturgico raffinato e complesso, in cui la prosa lucida e decisa del documentario si alterna a ecfrasi minuziose, per lasciare infine lo spazio alla poesia. Si fatica a dire che En abyme è un testo drammaturgico. È certamente questo, ed è altro; è anche, ad esempio, sceneggiatura cinematografia e assomiglia a quelle opere poetiche costellate da inserti drammaturgici. E tuttavia ha un carattere peculiare, che soltanto chi ha esperienza del teatro può aggiungere. Djokovic sa cosa significa costruire concretamente una scena e dare voce fisicamente a un personaggio (nella replica milanese ha sostituito all’ultimo momento l’attrice Francesca Farcomeni, incorporando la voce che ha scritto, quella di MARIANNE). È forse questa la caratteristica più originale della scrittura di Djokovic: la sua capacità di creare la voce con la voce, di dare corpo a quattro personaggi-funzione, che non dicono il corpo e non dicono l’abisso, ma sono, insieme, corpo e abisso. Allo stesso modo le immagini verbali sono costruzioni spaziali che si configurano come reali e tangibili. Così l’atto di raffigurare la bambina, la donna, l’uomo, attraverso la scrittura, «non significa più riprodurre e neanche rivelare, ma produrre l’esposto-soggetto. Pro-durlo: condurlo davanti, trarlo al di fuori», come scrive Jean-Luc Nancy ne Il ritratto e il suo sguardo. Fare dell’abisso un corpo esposto.