L’armonia della vita come cultura educativa
Valentina Chianura

17.09.2022

La mia cultura si è nutrita della mia vita e la mia vita si è nutrita della mia cultura
Edgar Morin


Facendo mia questa considerazione di Edgar Morin, osservo come la complessità della realtà che stiamo vivendo, caratterizzata dai problemi e dalle sempre più difficili relazioni che si concretizzano tra ambiente, essere umano e processi educativi, faccia da cornice a quelle convinzioni pedagogiche che indirizzano gli ordinamenti didattici generali.

Partendo dall’analisi del concetto di cultura e considerando sia l’accezione storica legata al termine in quanto sinonimo di erudizione sia quella propria delle scienze sociali secondo cui potrebbe essere considerata come una seconda “natura”, si potrebbero aprire molti scenari che spesso sono già raffigurati in molti dei manuali di antropologia che abbiamo a disposizione.

Tra le tante definizioni di cultura, infatti, si fa riferimento a quella più impiegata, sintetica e di fatto presunta completa legata al fatto che la stessa sia descritta/rappresentata come un insieme di regole, usi, costumi, modi di comportarsi, abitudini che un individuo apprende in quanto membro di una società.

Senza la cultura, noi non saremo capaci di sopravvivere. Per consentire un continuo scambio affinché le culture presenti siano in qualche modo trasversali, bisogna sviluppare relazioni proficue e dar vita a nuove strategie di conduzione dell'esistere individuale e collettivo. L’individuo di per sé è sempre stato un essere in movimento, in divenire, nello scontro-incontro, tant’è che tutta la storia dell’umanità è basata su movimenti incessanti, dislocazioni spesso non programmate.

Torna in mente a tale proposito la nota osservazione di Blaise Pascal, il quale diceva che tutti i problemi dell’essere umano nascono dal fatto che non è capace di stare chiuso nella sua stanza. Riportando questa osservazione ai giorni nostri, viene facile il paragone con l'odierno conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Ma quello che qui interessa è rilevare come ciascun individuo sia spesso spinto a diventare portatore di una propria interpretazione dei fatti sociali, essendo di conseguenza piuttosto difficile relazionarsi propriamente e produttivamente con gli altri, per non parlare poi della quasi impossibilità di mettere in piedi una disposizione di carattere empatico.

Bronislaw Malinowski considerava quest’ultima come “esperienza di immedesimazione nella vita dell’altro, grazie al quale arrivare ad afferrare intuitivamente i fini ultimi che ciascuna società cerca di realizzare” (cfr. M. Tassan, Antropologia per insegnare, diversità culturale e processi educativi, Zanichelli, 2020, pag. 21). L’essere umano ha una sua specifica visione del proprio mondo e la cultura rappresenta in definitiva un fattore di risposta ai bisogni variabili elaborati da ciascuna società, sempre contraddistinta da una complessità comunque non facile da ridurre in termini adeguati allo svolgimento di un esistere il più possibile “lineare”.

La variabilità ambientale e il rapporto che gli esseri umani creano a tal proposito, in relazione ad essa, viene analizzata in modo stimolante da Tim Ingold, sottolineando la differenza tra la prospettiva del costruire con la quale il soggetto è in grado di apprendere interiorizzando le rappresentazioni collettive e quella dell’abitare necessaria per una migliore acquisizione e “spesa” del “saper fare”.

L’individuo resta infatti un essere attivo, pratico e percettivo immerso in contesti esperienziali in un mondo “specifico” ma ciò che risulta assai complicato è il perseguimento di un complesso di attitudini formative in grado di far fronte alle turbolenze di un mondo sociale, economico, politico come quello contemporaneo.

Con la globalizzazione, il concetto di cultura, insieme ovviamente ad altri, è stato ancora più del solito al centro dell’attenzione generale in numerosi ambiti di ricerca ed è attraverso il cambiamento dei suoi assetti e delle sue configurazioni che si è potuto constatare anche l'intensificazione delle relazioni sociali di qualsiasi genere, riscontrabile perlomeno fino all'esplodere della pandemia da coronavirus.

Nonostante ciò si son potute creare nuove forme di connessione culturale che hanno segnato nel bene e nel male la vita di ognuno. Il mosaico di culture, sempre riprendendo un termine derivante dal funzionalismo malinowskiano, dà l’idea di come la cultura stessa non abbia confini poiché gli individui continuano a dare forma variabile al loro modo di pensare e di agire, qualsiasi cosa accada. C’è da dire però che si disegna sempre più nettamente/incisivamente quel complesso intreccio di elementi e prodotti che danno vita alla specificità di una struttura sociale e di una formazione dell’individuo in continua evoluzione.

L’essere umano, ancor meglio qualificabile per alcuni come essere “del progresso”, appare allora, date le sfide sempre più difficile che ultimamente affronta, come un essere che sperimenta, cambia e verifica il proprio sapere, ritrovandosi ad avere a disposizione complessi formativi spesso assai

diversi tra loro e con uno spiccato retrogusto, per così dire, di sapore “interculturale”. Quest’ultimo, non essendo solo un fatto oggettivo come la multiculturalità ma una risposta in fondo proprio educativa che vorrebbe favorire la comprensione dei “mondi” degli “altri”, dovrebbe portare continuamente il soggetto a cercare e creare relazioni di “corrispondenza” (per riprendere ancora Ingold).

L’errata presa di coscienza, che si constata spesso così oggi diffusa, rispetto al rapporto con il proprio “mondo culturale”, può essere considerata come una causa importante del prestare poca attenzione a quel senso di cura, di premura nei confronti degli “altri” che limita – per non dire blocca – quella spinta positiva ad assumere maggiore consapevolezza di sé e a gestire proficuamente le differenze individuali, da intendersi invece come indispensabile per tentare di giungere ad una sintesi positiva del sé e dell’altro, premessa necessaria per tutti quei processi formativi che si sviluppano al fine di educare al meglio il singolo e la società stessa nella molteplicità delle sue articolazioni.

Avendo una visione spesso assai poco chiara della complessità dell'esistenza e ritornando a quanto detto inizialmente, vorrei sottolineare come bisognerebbe vivere la stessa tentando di saggiarne le possibilità di trasformazione, senza tralasciare nulla e soprattutto non limitandosi ad osservare passivamente ciò che accade. Diventare esseri pensanti, partecipi e originali, senza cadere nelle banalizzazioni che spesso la vita ci offre e travasando quegli elementi diversi dalla solita specificità, ci deve condurre a creare momenti formativi che permettano di mettere ancora più a valore – insieme – le differenze esistenziali, sociali, culturali in senso lato, di considerarle come elementi di un cantiere di significati non scontati sempre “aperto”.