L'inumano in noi
Marcello Marino

23.10.2022

Con la guerra in Ucraina è ricomparsa, nel dibattito pubblico, la categoria concettuale dell’inumano. Dopo una breve assenza nel periodo pandemico, in cui l’umanitarismo sembrava poter contare su un afflato universale che univa gli uomini a tutte le latitudini nella battaglia per la salvezza, l’evento bellico in Europa ha riportato al centro l’orrore della guerra, la sua inammissibilità e la sua inumanità.

Gli esseri umani – con la sola eccezione degli insetti – sono gli unici a fare la guerra, e tuttavia non si ritiene fuori luogo parlare di inumanità. Eppure, per molti filosofi, da Aristotele a Spinoza e fino a Hume, a Nietzsche, ciò che noi oggi definiamo “inumano” veniva considerato, a pieno titolo, manifestazione delle “passioni” e delle “pulsioni” che caratterizzano la nostra specie. In questa prospettiva l’umano ha in sé tutto ciò che esprime, e ciò che noi definiamo inumano rientra integralmente nelle sue capacità e volontà.

L’uomo non cessa mai di essere tale ma è grazie alla crescente consapevolezza della sua natura che si impongono la necessità dell’etica e della politica: strumenti di compressione e controllo dell’azione umana, capaci di frenare la degradazione della specie.

L’ipotesi per cui l’essere umano, in quanto tale, contempli tutte le azioni di cui si rende capace, rinvia ad un approccio “essenzialista”, opposto all’idea di un uomo in divenire, in “costruzione” (approccio, questo, che ha ampiamente caratterizzato il pensiero del novecento, esistenzialismo in testa) che, rifiutando l’ipotesi biologista di una essenza data, le antepongono l’esistenza. L’uomo non è ma diventa. Per dirla con Sartre “l’uomo è ciò che si fa”.

Tuttavia, per poter definire qualcosa “inumano”, abbiamo avuto bisogno di ricorrere ad una formula normativa: una volta attribuiti degli standard alla specie “umana” per distinguerla dalle altre specie animali, all’inumano finiscono per corrispondere tutti quegli atti al di sotto di quegli standard.

Così definiamo inumani comportamenti brutali, spietati, crudeli, e non a caso utilizziamo a mo’ di sinonimo il termine “bestiale” o altri epiteti riferiti ad animali.

Spinoza, in un passo del carteggio con Van Blijenbergh, ci ricorda che “ognuno guarda con ammirazione e diletto negli animali le stesse cose che si detestano e si guardano con contrarietà negli uomini, come ad esempio la guerra delle api, la gelosia delle colombe ecc…

La nozione di “inumano” ci serve per definire un limite dell’agire e non una verità. Fingendoci impreparati di fronte al suo concretizzarsi, l’inumano ci appare di volta in volta inaccettabile, pur nella sua eterna rappresentazione. Uno degli eventi principali tra quelli capaci di liberare l’inumano è, senza dubbio, la guerra, che permette di ignorare quei limiti fissati nella definizione di “umano” e legittimare pratiche brutali e l’assassinio.

La guerra, che per Hobbes è la condizione naturale dell’uomo, non solo non è stata estirpata dai nostri orizzonti ma, anzi, potenziata nelle sue possibilità (si pensi, oltre alla potenza delle armi nucleari, anche alla definizione di “guerra ibrida”).

La guerra, tuttavia, è un fenomeno che sembra essere comparso nel neolitico, collegata quindi alle prime forme di stanzialità, e questo sembrerebbe avallare le teorie che rigettano l’idea di un uomo aggressivo per natura. Rimane però un triste dato riportato da James Hillman nel suo Un terribile amore per la guerra: “Nei cinquemilaseicento anni di storia scritta, sono registrate 14.600 guerre: una media di 2/3 per ogni anno di storia umana”.

L’inumano, come ogni concetto morale, ha una sua mobilità, un’intrinseca duttilità che ne permette l’adeguamento a tempi e contesti. Il grado di abbandono dell’umano è definito (e praticato), il più delle volte, da chi agisce, ma la sua (presunta) ragione alligna in chi subisce. È l’oggettivazione di quest’ultimo, ad opera di chi agisce, a produrre l’inumano. La trasformazione dell’Altro in oggetto produce l’inumano.

Prima ancora della degradazione di chi usa violenza e brutalità, deve realizzarsi la degradazione del destinatario della violenza, che perde la sua “umanità”, la sua “alterità” piena e, diventando cosa, legittima il mancato rispetto degli standard “umani” giustificando l’aggressore.

Era esattamente questo che avveniva nelle colonie romane, nelle terre conquistate dagli spagnoli, nelle galere turche o nelle piantagioni nel Sud degli Stati Uniti. Gli esseri umani schiavizzati, venduti, uccisi o torturati avevano prima di ogni cosa subìto la loro degradazione a categoria non umana. Sardi venales, alius alior nequior (“Sardi in vendita e uno vale meno dell’altro”) si diceva nel II sec. a.C., dopo che Tiberio Semporio Gracco ne uccise circa 30.000 e ne schiavizzò così tanti che il loro valore sul mercato crollò. Per legittimare le loro azioni e rendere la guerra “giusta”, gli spagnoli, interpretando Aristotele, parlavano di servidumbre natural.

Lo spettacolo dell’inumano riguarda sempre l’osservatore, ma solo fino a quando egli stesso non degrada a sua volta colui che ai suoi occhi risulta inumano. In una sorta di processo dialettico, chi agisce in maniera inumana viene a sua volta oggettivato, perde la sua originaria “umanità” agli occhi di chi lo osserva, e si fa esso stesso oggetto.

Nella condizione di guerra poi, per estensione, viene oggettivato l’intero popolo, non la sua parte combattente. Colui che ha dato prova di inumanità, viene oggettivato e passibile di azioni di controllo e compressione delle sue azioni, in nome, naturalmente, di quel codice di interpretazione attraverso cui si è definito l’umano.

Anche oggi, di fronte ad una guerra che appare sempre più minacciosa, il principio dell’oggettivazione ha prodotto l’assimilazione di un popolo al suo dittatore (quello russo). Mentre nella dinamica interna tra aggressore e aggredito il popolo-oggettivato è quello ucraino (ad opera di quello russo), all’osservatore “terzo”, invece, quello ucraino risulta un popolo-popolo (che mantiene, in quanto vittima di un’aggressione, tutte le sue connotazioni umane) e quello russo un popolo-oggettivato (in quanto incarnazione dell’aggressore) per un principio di assimilazione del popolo al suo “capo” che ogni guerra comporta.

L’inumano si nutre di tutti i mezzi a disposizione, compreso il diritto. Il diritto romano negava espressamente la schiavitù per natura, di stampo aristotelico, ma ne affermava una di carattere storico e fattuale: una disgrazia che colpiva coloro che venivano catturati in guerra o chi si macchiava di gravi colpe o coloro che si indebitavano gravemente.

Per far valere la “vera religione” fu messo a punto un articolato strumentario teorico allo scopo di dominare i nativi americani, mentre il Mediterraneo era minacciato dai turchi e, di contro, parte dell’Europa, in pieno Rinascimento, subiva il fascino del pacifismo di Erasmo.

Per non parlare delle guerre nel mondo contemporaneo e le strumentali argomentazioni che hanno guidato migliaia di uomini ai massacri, alle persecuzioni, all’annientamento di interi popoli in nome della razza, dei diritti territoriali o della democrazia.

Cambiano gli apparati giustificativi, non più di ispirazione religiosa ma non meno cruenti. E non bastano le nuove leggi, le regolamentazioni internazionali, perché quello che sembra non imbrigliabile è quel “lato animale”, il cui depotenziamento fin dall’antichità fu affidato al logos, che però produce a sua volta quel “fanatismo della ragione” che Nietzsche intravedeva nella filosofia greca, capace di cogliere l’animalità umana ma non di eliminarla. Così la pensavano anche Freud (“la ragione è un lumicino”), Lorenz, Canetti, Fromm, il già citato Hillman.

Il “fanatismo della ragione”, come si vede dagli eventi di cui siamo testimoni, si incaglia, produce paradigmi e antinomie, argomentazioni capziose.

Disinnescare il meccanismo dell’oggettivazione è il compito dell’osservatore terzo, che per farlo non si impantana nelle ragioni dell’oggettivazione ma persegue la necessità della sua eradicazione.

Il ritorno all’umano, dunque, si rende possibile solo nell’interruzione della spirale dell’oggettivazione, incistata nell’interpretazione dualistica aggressore/aggredito che risponde, invece, di una grammatica della guerra e di quella ragione incagliata. Le parti in gioco, per il fatto stesso di mettere in-essere – pur da una diversa posizione – la dialettica di produzione dell’inumano, non risultano in grado di interromperla, come è stato in una miriade di conflitti. Ma chi non partecipa di quel dualismo (l’osservatore “terzo”) ha, nella possibilità di non oggettivare, il dovere dell’umano, cioè la conservazione di quegli standard, unico strumento per ambire a una soluzione fuori dalla dialettica dell’oggettivazione e dalla sua produzione dell’inumano.

Come diceva Sartre, “Colui che parte dai fatti non arriverà mai alle essenze”. Tanto più utile tenerne conto quanto più si ha la fortuna di non essere tra coloro travolti dai fatti. La ricerca della pace si fonda sul disconoscimento di qualsiasi oggettivazione, è superamento non della diatriba in quanto tale ma della dialettica dell’inumano che ogni scontro produce.