Musica e implicazioni sociali – Angela Davis per Billie Holiday
Melania Moltelo

19.11.2023

In Blues e femminismo nero di Angela Davis ci sono delle straordinarie pagine dedicate alle implicazioni sociali delle canzoni d’amore di Billie Holiday, artista nera profondamente radicata nella tradizione blues – nonostante il blues da un punto di vista formale abbia un ruolo minimo nel suo repertorio – come prodotto culturale nato nella dimensione schiavista e oggetto di elaborazione ulteriore per sfidare le traiettorie consuete della popular music.

La grandezza di Holiday per Davis consiste nell’emancipare la banalità dei suoi testi attraverso una ri-definizione estetica, formale, nel caricarne le linee ordinarie con la misteriosa capacità di significazione della tonalità blues. L’analisi davisiana si muove nel rintracciare i risvolti politici dove non ci si aspetta: infatti per esaminare le canzoni d’amore di Holiday si serve della nozione di «dimensione estetica» del suo maestro Herbert Marcuse. Marcuse adopera questo concetto per descrivere il legame complesso tra il potenziale politico dell’arte e la forma estetica in quanto tale e per individuare la radicalità dell’arte nella negazione della non-libertà del presente, nel trascendimento della dimensione sociale di cui pure conserva la presenza schiacciante.

Questa concezione dialettica della forma estetica viene ripresa da Davis per avvicinare l’opera di Billie Holiday e per andare oltre la stessa Billie Holiday: come lei stessa afferma, il concetto marcusiano di dimensione estetica subisce in questa riflessione un processo di collettivizzazione e storicizzazione per ricomprenderne l’opera in un’ottica simbiotica – e non isolazionista – con la storia musicale e sociale afroamericana.

È la dimensione estetica che induce Davis a occuparsi del gioco formale come sito della sovversione estetico-sociale; in effetti il progetto di Holiday consiste soprattutto nel trasformare materiale già esistente in chiave jazz moderna. La dimensione estetica di cui Marcuse, ci dice Davis, è proprio in questa operazione: nella modellazione in un particolare stile delle canzoni eseguite e composte per lo più nella catena di montaggio dell’industria musicale Tin Pan Alley secondo il sentimentalismo artificioso dell’epoca.

Per illustrare il modo in cui Holiday esegue questo rimodellamento che le consente di denunciare e di sfidare allo stesso tempo le determinazioni sociali di un’epoca Davis mette il suo canto in relazione ai processi di appropriazione storica della lingua inglese da parte delle popolazioni afroamericane. Le africane e gli africani deportati e schiavizzati nelle fattorie e nelle piantagioni dai colonizzatori europei negli Stati Uniti dovettero imparare una lingua nuova per facilitare la comunicazione interpersonale, ma trovarono comunque il modo di accettare l’inglese standard trasformandolo alla luce delle proprie esigenze culturali e politiche. L’apprendimento della lingua inglese fu necessario per la sopravvivenza, ma nella bocca dello schiavo ogni parola risuonava già trasformata e dissacrante, come balsamo della ferita aperta della violenza colonizzatrice. Allo stesso modo per Billie Holiday la possibilità di fare musica è ancorata all’accettazione di una tipologia di canzoni lontana dalla sua tradizione e delle logiche del mercato della musica. Come testimoniano le esperienze schiaviste, ci può essere ancora un rapporto creativo tra l’oratore e la parola parlata che spinge il significato al di là dell’immediatezza del letterale ed è questo che Holiday fa con i testi che le vengono consegnati e che le permettono di far sentire la sua voce.

Questa capacità di nominare l’indicibile è tipica del linguaggio musicale nero di cui si può ritrovare l’anelito in tutte le esecuzioni di Holiday e che fa pensare al linguaggio cifrato degli schiavi per resistere alla violenza dei colonizzatori: Holiday canta, ad esempio, un abbandono e lo fa con un senso inatteso di liberazione che sembra sfidare i ruoli di genere diffusi nelle relazioni amorose convenzionali, come tutte le volte in cui il gioco della voce le consente di trasmettere un’ambivalenza e di sottrarsi all’accettazione descritta del ricatto emotivo dell’uomo nei confronti della donna. La voce le consente di comunicare questo disperato esercizio di autocoscienza che può arrivare a commuovere, senza suscitare una pietà immobilizzante, tanto la sua comunità che la comunità bianca.

È questa frattura profonda tra le affermazioni esplicite e i loro significati estetici ad avere una valenza politica: questa conversione dell’affermazione in un interrogativo crea lo spazio per una soggettività femminile in via di liberazione e l’occasione per un posizionamento critico nei confronti di relazioni sociali allora considerate immutabili.

Le sue canzoni prefigurano le richieste di inclusione elaborate in seguito, le lotte di chi non ha voce e prende in prestito la lingua dei padroni per tradirla e tradurla in qualcosa di innovativo.

L’arte non raggiunge mai la sua grandezza distaccandosi dalla realtà costituita, ma lo fa quando assume una posizione trasversale nei suoi confronti e la riconverte in una configurazione inedita: ancora in senso marcusiano, l’arte è al suo apice quando incoraggia un atteggiamento critico verso la visione di un mondo migliore. Pur essendo fortemente radicata nella realtà sociale, l’arte è rivoluzionaria quando ne evidenzia le crepe e si pone oltre il mero atteggiamento mimetico. La mimesi è il regno della non libertà e la visione migliorativa che ci offre l’arte della società è veritiera anche in disfatta.

Le canzoni di Billie Holiday sembrano trasudare un Eros diffusivo che si spinge al di là dell’esperienza individualista dell’amore, recuperando ossia quella solidarietà erotica e quella fantasia creativa che si pongono in netto contrasto con un sistema che definisce il bene in termini di profitto e non di bisogno umano. Sono esempi commoventi degli usi dell’erotico come potere collettivo.