Per un'idea combinatoria di storia a fumetti
Matteo Gaspari
© 2014 Richard McGuire – Qui – Rizzoli Lizard

18.09.2021

Forse la più celebre descrizione del linguaggio fumetto, resa popolare da Will Eisner e poi da Scott McCloud, è quella che lo vorrebbe “arte sequenziale”. Al di là dei giochetti con la Colonna Traiana (qualcuno tira sempre in ballo la Colonna Traiana), l’efficacia di queste parole è quasi autoevidente: la sequenza è elemento cardine della grammatica fumettistica che, in una semplificazione utile quanto eccessiva, si poggia sui “buchi” tra le vignette e di conseguenza sui nessi causali o semantici che questi instaurano tra susseguenti elementi singoli che diventano sequenza proprio attraverso quei nessi.

Porre l’accento sulla sequenza di unità narrative più che sulle unità stesse è stato ed è ancora uno strumento pratico per spostare l’attenzione dal rapporto tra testo e immagine come elemento definitorio alla narratività che si instaura nella relazione tra più immagini.

E se non posso dire di condividere appieno l’animosità che accompagna sempre più il concetto di “arte sequenziale”, in effetti riduttivo, comprendo l’attuale preferenza per il termine “arte combinatoria”: dà conto della multimodalità di lettura che il fumetto richiede e del continuo processo di ricostruzione che avviene nella mente del lettore. Un processo che è combinatorio per natura, nel quale l’accostamento di elementi omologhi e difformi crea un gioco generativo di connessioni e stratificazioni.

Possiamo quindi immaginare di ampliare il discorso sulla combinatorietà, spostandolo dal dato grammaticale alla struttura narrativa che dalla grammatica è sorretta e veicolata.

In una riuscita assonanza tra linguaggio e racconto, per esempio, è il continuo esercizio di giustapposizione che in Palepoli restituisce la caleidoscopica complessità dell’immaginario personale e collettivo, o che in Fun ricostruisce la storia delle parole crociate e l’eco del loro essere oggetto interconnesso, o ancora che in Qui ritrae la sottile trasformazione di un edificio qualunque in casa intesa come archetipo universale, come contenitore in potenza o in atto d’umanità.

2015, Rizzoli Lizard pubblica Qui. In 300 pagine Richard McGuire, senza muovere l’occhio dal salotto di casa sua, fa fare un saltino in avanti al graphic novel scostandosi con veemenza dai preconcetti su cosa un fumetto debba e possa essere sia in termini di linguaggio che di struttura narrativa.

Piegando e talvolta rifiutando del tutto un’idea di sequenzialità comunamente intesa, Qui è il tripudio della sovrapposizione, della non-direzionalità, del tempo convoluto e simultaneo che si avvolge e si accartoccia su se stesso. È un’esplosione di piani temporali che convivono confortevoli sulla pagina come volti sconosciuti eppure familiari a una festa dei coscritti.

2014, il primo volume del dittico polinarrativo Fun e More Fun esce per Coconino. Pubblicato in due volumi a causa di un fortunato imprevisto produttivo, la bizzarra coppia di libri è con ogni probabilità tra le manifestazioni più alte del talento di Paolo Bacilieri.

È una storia che parla di giochi e che sembra un gioco, una storia che procede come in orizzontale e in verticale a costruire uno schema più ampio, una storia nata un po’ per caso dall’incontro inaspettato con Stefano Bartezzaghi: “Paolo, perché non fai un fumetto sull’evoluzione del cruciverba?”.

2021, Palepoli. Il passo tra ambizione e presunzione è breve e Usamaru Furuya ha sconfinato troppo spesso e troppo a lungo nella seconda: era comparso come un meteorite a inizio anni ’10 con una manciata di titoli andati fortunatamente dimenticati, per poi tornare un paio d’anni fa con La musica di Marie, follia dal gusto inutilmente masturbatorio. Con uno storico simile c’è poco da stupirsi che Palepoli, raccolta visivamente strabordante delle sue strisce giovanili, sia stato approcciato dal lettore accorto con piglio perlomeno cauto.

Con Bacilieri la cautela non è mai servita: è da tempo un autore ampiamente, e giustamente, affermato; uno dei grandi della narrazione per immagini. Ma con Fun firma il suo fumetto più ambizioso e forse anche più riuscito, nel quale sublima il suo tipico rigore narrativo e porta a nuove altitudini la precisione linguistico-formale che da sempre contraddistingue la sua produzione brillante e variegata.

Inedito punto di contatto tra fiction e non-fiction, tra osservazione del presente e ricostruzione storica, tra saggio cultural-letterario e riflessione metalinguistica, Fun è un’avventura senza mappe, un’esplorazione di sentieri solo all’apparenza divergenti, un pellegrinaggio da percorrere un passo avanti e uno di lato accompagnato dalla guida incerta e inevitabile di Zeno Porno, insolito Virgilio errabondo per natura.

Più che accompagnarlo, invece, Furuya il lettore lo strattona. E più che un pellegrinaggio, Palepoli è una collezione dei silly walks dei Monty Python. Scritte e pubblicate su rivista tra il 1994 e il 1996, le strisce che compongono questo volume imbastiscono narrazioni nonsense per poi abbandonarle, riprendono battute appena accennate pagine prima, divagano senza meta attraverso capisaldi dell’immaginario dell’autore.

È un gioco che rende il giro pagina un esercizio costante di scoperta nel quale più di ogni altra cosa è l’accostamento di situazioni incongrue a generare significato. Un’unica regola: pagine tutte uguali, quattro vignette numerate e un titolo a cui aggrapparsi per non venir portati via da un vento che cambia sempre direzione.

Fedeli al titolo, siamo in un “qui”, non in un “quando”. O meglio, siamo in un “qui” e in ogni “quando”. E “qui” è una bella stanza con un bel caminetto. Quanta vita ha attraversato queste mura, persino prima che il primo mattone venisse poggiato…

L’inquadratura è congelata sulla stessa visuale dello stesso salotto, il salotto, e su questo sfondo geograficamente imperturbabile è il tempo a balzare avanti e indietro, in un caleidoscopio di linee narrative che si toccano e divergono, proseguendo ognuna alla sua velocità. Finestrelle si aprono su altre epoche, scorci momentanei di una moltitudine di vite.

È il 1989, un gruppo di anziani signori ascolta una barzelletta. 1933, un bambino inizia una capriola. 3 miliardi di anni fa, la casa non c’è ancora, l’uomo nemmeno. E poi Natali e compleanni, feste e balli, un brulicare di vita che sempre si rinnova.

L’horror vacui che accompagnava Bacilieri in Zeno Porno e La magnifica desolazione, con il loro brulicare di testi, didascalie, postille, dettagli, puntualizzazioni, sembra essersi placato. In Fun, l’autore trova requie in un altro tipo di accumulo, quello di frammenti e divagazioni che gli permettono di battere strade inaspettate attraverso la provincia Weneta, la New York del secolo scorso, la Milano d’oggi. Sempre con la “Settimana Enigmistica” sempre bene a mente.

Torniamo nel salotto. 1959, una foto di famiglia. Discussioni sfociano in litigi che divampano e si propagano sulla doppia pagina come incendi. E noi siamo sempre “qui”, nel nostro “ora”, spettatori atemporali di un atlante universale delle situazioni umane. 1999, un gatto si lecca una zampa.

È a pagina 27 che il lettore dimentica la cautela maturata in anni di letture discutibili e si abbandona al fascino di Palepoli. Pagina 27, la striscia si intitola “Pornaemon”. Scene orgiastiche dei corpi restituiscono, se viste dalla giusta prospettiva, il ritratto dei quattro protagonisti di Doraemon: la giustapposizione dei corpi nudi in amplesso ricrea volti da un manga per bambini.

Una sincronica combinatorietà che evidenzia il passaggio tra guardare l’immagine e leggerla. Il contrasto semantico e culturale è eccitante e spiazzante a un tempo.

1999, un gatto si lecca una zampa. 1964, seconda foto di famiglia. 1989, la barzelletta è abbastanza divertente e tutti ne ridono. 1933, capriola, siamo quasi in verticale. 1999, un gatto esce dall’inquadratura. 1969, terza foto di famiglia.

Nella stessa manciata di pagine, bimbi vengono al mondo e invecchiano, ere geologiche si avvicendano e un felino domestico procede con la sua toeletta annoiata e minuziosa. La memoria di quelle mura schiaccia e dilata i tempi, li sovrappone, li fa scorrere ognuno alla sua velocità.

Le parole crociate, con il loro ordito ritmato di bianchi e neri, accompagnano una narrazione che procede a volte in orizzontale e a volte in verticale, lasciando delle caselle vuote da riempire solo in seguito, quando si avranno abbastanza elementi di contorno. Per usare le parole di Alessio Trabacchini, “il racconto sembra seguire il suo stesso commento” in un concerto di rette parallele che pure sembrano intersecarsi di continuo.

1933, atterraggio perfetto, capriola riuscita. 1979, altra foto di famiglia. Quella che appare da principio una giustapposizione arbitraria di elementi tenuti assieme soltanto dallo spazio in cui avvengono – o sono avvenuti – rivela presto affinità e punti di tangenza.

È una convergenza semantica che emerge spontanea dal convivere sulla stessa pagina di linee temporali e narrative differenti, unite dal fatto di svolgersi proprio “lì”. 2213, turisti desiderano visitare una casa del Ventesimo secolo. 1983, ultima foto di famiglia, non ce ne saranno altre. Nel rifiuto della linearità temporale e dei conseguenti rapporti causali che essa genera, Qui crea altri tipi di affinità, altri nessi di significato. È un altare alla memoria dei luoghi, che sempre trattengono l’eco di ciò che hanno visto.

Il libro-mosaico di Furuya sembra rifiutare con eloquenza ogni genere di nesso logico tra una pagina e la successiva, come se l’autore cercasse di rifuggire un significato unitario: grappoli di scene suggeriscono una narrazione articolata per poi lasciare il posto a lisergici cambi di punti di vista, one liners, digressioni, esercizi di stile, esperimenti metanarrativi.

È un groviglio inestricabile di linee narrative effimere, ma sotto la superficie si fa strada con sempre maggior eloquenza il gioco delle citazioni. Da Tsuge a Pulp Fiction, da Maruo all’arte cristiana, dal kawaii a Tezuka, da Moto Hagio all’antico Egitto a Doraemon, Furuya adatta il proprio stile a ogni citazione, rimando, riferimento.

Poco alla volta diventa chiaro: Palepoli non è un libro di strisce, è il ritratto di un immaginario. Immaginario che viene esploso, digerito, ricombinato, assemblato in libertà. Immaginario che non può che essere frammentario come la metanarrazione che lo riporta su carta.

In un’intervista per “Banana Oil” nella quale si parlava di Palla, librino inaspettato e fondamentalmente combinatorio, Bacilieri affermava: “mi affascina molto l’idea di accostare due elementi narrativi apparentemente contrastanti, estranei, ignoti l’uno all’altro, e vedere cosa succede”. E credo che in queste poche parole abbia centrato un nodo importante.

Non che si debba per forza scendere nello sperimentalismo dell’accostamento casuale di Palepoli o nella frammentazione estrema per quanto programmatica di Fun e di Qui. Tuttavia trovo limitante che la maggior parte del graphic novel contemporaneo si presenti con storie lineari e una struttura che, se la vedessimo come guardando una figura geometrica dall’alto, assomiglia a una retta o per meglio dire a un segmento. Una struttura puramente sequenziale, insomma.

Ma se siamo passati dall’arte sequenziale all’arte combinatoria, è interessante osservare quelle storie che fanno non della sequenza ma della combinazione di elementi – anche all’apparenza incongrui – una forza generatrice di significato.

È sempre interessante quando lingua e discorso procedono in parallelo, e talvolta le specificità della forma – qui intesa come grammatica – possono riversarsi nel contenuto – qui inteso come racconto – instaurando una sorta di assonanza costruttiva. Se il fumetto è arte combinatoria, allora che lo siano più spesso anche le storie di cui si fa portatore.

1989, un anziano signore, ancora divertito per una barzelletta andata a segno, ha un infarto.