Poetica della quotidianità
Luciana Floris

31.12.2023

La figura della madre, con la sua “potenza simbolica”, legata all’origine della vita, dell’essere, non cessa di alimentare l’immaginario letterario e filosofico contemporaneo. Per riscoprire un potere che la cultura patriarcale ha rimosso, confinandolo fra mura domestiche, cercando di sorvegliare e controllare, anche con l’aiuto della tecnologia, l’operato femminile. E’ intorno a questa figura che ruota Madrebianca (Passigli editore) di Rosalba De Filippis, poetessa tesa a costruire una lirica della quotidianità, esplorando una presenza/assenza che scava “crepe” nel pensiero. Il luogo dove risuona la voce è la casa ormai vuota, avvolta dal silenzio, con “l’orto scalcinato” dove spuntano le bocche di leone, “vite accantonate” tra le foglie del limone - e affiora il ricordo della mano che le schiude. Luogo significativo, la casa, col vissuto che si addensa nelle stanze, quasi un secondo corpo che rimanda alla fisicità del rapporto madre-figlia, ne ripete l’abbraccio naturale, ricordando il tepore di quella abitazione primordiale che è stata, per tutti i viventi, il ventre materno. Uno spazio che ha una sua sacralità, poiché legato ad una presenza da rievocare, e diventa metafora stessa della filiazione (suggestiva l’immagine del figlio/casa, con “le maniglie delle ossa”, “le costole d’ottone”, “le tavole di legno del cuore”). Come scrive Sergio Givone nella prefazione, “le stanze che un tempo la madre e la figlia abitavano insieme, e che ora sono deserte, acquistano una misteriosa e segreta aura religiosa”. E fra le varie stanze proprio la cucina è deputata a luogo d’incontro, cura di sé e dell’altro. Qui il confine fra presenza e assenza diventa labile, poroso, e sgretolandosi permette di comunicare, di sconfinare al di là. “L’ordine perfetto che non lascia/ neanche il grano della polvere sul tavolo./ Il lindore segna l’assenza:/ quasi una madre” .

C’è in questi versi una metafisica delle piccole cose - i bicchieri conservati, le stoviglie “in silenzio da mesi”- che lungi dall’essere inerti e opache, rimandano ad altro da sé. Sono molti gli oggetti che si rivelano carichi di tracce del vissuto, avvolti da una patina di memoria che richiama la presenza-assenza materna, quasi un’impronta materica che “si imprime con la garza”: i farmaci scaduti nei cassetti, le vestaglie, l’accappatoio. I vestiti diventano sempre più ampi per il corpo che invecchia, e restano appesi come “gusci vuoti, mute di serpi”. I rituali del lutto portano a svuotare gli armadi, dove si annida “tutta una vita di stoffe passate”. E i gesti della cura spingono a ripulire le lettere del nome sul marmo, togliere quella “polvere di madre raccolta nello spazio”.

Questa metafisica del quotidiano rimanda a una dimensione trascendente, vista però sempre in relazione con l’immanenza: lo slancio verso l’alto è sempre compensato da una discesa nel qui ed ora, un presente che si annida tra le stoffe, tra i capelli o sopra i libri. Il cielo rimanda al perimetro di stanze d’ospedale con l’intonaco pulito, l’elemento aereo al rigore geometrico di un’architettura cimiteriale. C’è, in queste pagine, una mistica della casalinghitudine, dove gli oggetti di tutti i giorni diventano occasione d’incontro con l’enigma dell’Assoluto.

La morte non appare nella sua gravità , ma si accompagna ad una certa leggerezza e giocosità: avviene in un “luogo di lana e maniglie d’ottone”. Dettagli della quotidianità irrompono a rendere la fine meno tragica ( “tu muori/ perché ti avvantaggi/ tieni il posto a me/ come al parco/ o sul banco di scuola”), e talvolta introducono una nota giocosa (“Apri/devo dirti dove sono le tue calze”). Agganci alla realtà concreta che creano un ponte col soprannaturale.

Col passare del tempo, il rapporto madre/figlia si ribalta e avviene uno scambio di ruoli, fino a sfociare in una maternità rovesciata: la “madre/bambina si annoda nel ventre”, e le due figure si sovrappongono come “foglie nell’umido del bosco”. C’è una somiglianza di gesti, attitudini che ricalca la figura materna, un parallelismo di affetti che accompagna durante la vita. Il senso di familiarità si declina in modi diversi: si diventa genitori, fratelli, sorelle in un caleidoscopio variegato dove i ruoli sfumano. E la figlia si assume il compito di dare corpo a chi corpo non ha più, dare veste a chi non ne ha più bisogno. Fosse anche una veste di parole, una tessitura di versi. E’ la stessa scrittura, allora, a farsi casa, dimora da abitare per sentirsi protetti, per essere in salvo.

Un rapporto così complesso, venato di amore-odio, attaccamento e rivalità, non può che essere soggetto ad una salutare alternanza: fasi di simbiosi e separazione, vicinanza e allontanamento. Una ciclicità già narrata dalla mitologia greca, con la vicenda di Demetra e Persefone, rapita da Ade, il dio degli Inferi, e costretta ogni anno a passare sei mesi nel regno di morti, prima di ritrovare la madre: il darsi e sottrarsi, ritrovarsi e perdersi di nuovo si avvicendano, soggette a un eterno ritornare.

Sono molte le studiose e le scrittrici che hanno indagato tale ambivalenza profonda. La passione “grande e contorta” che unisce madri e figlie, questo rapporto “ustionante” , non è certo pacifico, come ha notato Anna Salvo, psicoterapeuta che si è occupata a più riprese del tema, ma carico di una conflittualità inestinguibile, di “belligeranza”: qui avviene una lotta per il riconoscimento che si declina in modi diversi, qui si gioca l’essenza stessa dell’oggetto d’amore. Ciò che lo caratterizza è una “carica doppia, attraversata da qualcosa di potente, vitale e insieme distruttivo, (...) una complessità quasi paralizzante” (La madre: origine della passione). Questa duplicità genera un movimento “pendolare fra sintonia e distacco, solidarietà e contrasto”, scrive Roberta Mazzanti in Sotto la pelle dell’orsa, chiedendosi se questa sia un’esperienza comune a tutte “le figlie di madri del nostro secolo emancipatore”. Un doppio moto che può generare una difficoltà di contatto fisico, una riserva nei confronti dell’altra tale da provocare il “rifiuto, la paura della prossimità dei corpi” (Donatella di Pietrantonio, Mia madre è un fiume), poli elettrici dello stesso segno che si respingono, fino a restituire la mancanza.

Tu c’eri/ io invece mi negavo per paura/ ancora ieri”. Le pagine di Madrebianca rivelano la cifra poetica dell’autrice: parole cesellate come pietra preziosa, “parole diamante” taglienti, incisive. E tuttavia ammettono lo scarto, il passo di lato nella quotidianità, la messa in valore di sensazioni e oggetti, “bicchieri e pietanze” che segnano il passaggio ad un altro registro, quello della casalinghitudine. Ma aiutano anche a tenere insieme la dimensione del quotidiano e quel che lo supera, proiettando oltre. A ritrovare un “circolo di corpo e parola”, una “rispondenza di pensiero ed essere” (Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre). E riscoprire così quella “potenza materna” che permette di porsi in “ascolto della positività originaria dell’esserci”. Un compito più che mai urgente in tempi in cui la ricerca di autonomia e libertà femminile è tragicamente messa in causa, frenata, colpita a morte.