Senza Titolo (La Pittura 4)
Carmen Lorenzetti
Andrea Facco, Tavolozza n°3, 2019 photo credit Linda Mettifogo

15.10.2021

Parlare del colore in pittura è un qualcosa di ineffabile, ma necessario, perché fa parte del senso innato nel medium stesso. Che sia difficile parlarne lo testimoniano scritti come Storie di pitture di Daniel Arrasse (I ed. 2004, ed. italiana 2014), che nel penultimo capitolo del libro scrive della pittura come oggetto (sfuggente) del desiderio, sottomesso allo sguardo come appercezione prima, precedente (scriveva ancora prima Baudelaire) la sua analisi attraverso il linguaggio.

Lo sguardo costituisce quindi un flusso ed un continuum rispetto al reale esattamente come la pittura e in fin dei conti il colore. Eppure proprio questa tensione verso, questo desiderio di, inducono a parlarne; di questo si occupa lo storico dell’arte, il critico d’arte. Pochi capitoli prima Arrasse scriveva il capitolo “Si vede sempre meno”.

E’ una considerazione generale più attuale che mai e anche la segnalazione di un luogo in cui invece conviene esercitare lo sguardo: la pittura e il colore.

Un altro accostamento che rende ineffabile parlare di pittura e di colore è quello con la sensibilità. Il colore appartiene alla sfera dell’espressione secondo Julian Bell (Cos’è la pittura?, I ed. 1999, ed italiana 2018), che associa il colore al sentimento riportando ricerche ottocentesche: da una parte Ruskin e Turner e dall’altra la Teoria dei colori (1810) di Goethe.

Quest’ultimo parte dall’analisi scientifica dei colori suddividendoli in fisiologici, fisici e chimici (avvicinandosi in questo capitolo ai ricettari di medievale e storica memoria) e arriva alla “azione sensibile e morale del colore”, cioè all’effetto dei colori sulla sensibilità umana, sullo stato d’animo dell’uomo, che “in arte, in tutti i tempi, …tende per istinto ai colori”.

Nel capitolo sui “Rapporti di prossimità” e nelle considerazioni sul linguaggio, ammette “Come è difficile però non porre il segno al posto della cosa, mantenere sempre vivo l’oggetto dinanzi a sé e non ucciderlo con la parola!”.

Della sensibilità come componente fondamentale della pittura parla a lungo anche François Fédier, in L’arte. Il pensiero in pittura. Aristotele, Cézanne, Matisse, 2001, soprattutto nella seconda parte del libro dove riporta e commenta le quarantadue massime di Cézanne raccolte dal figlio di Cézanne e pubblicate dal poeta Léo Larguier.

In una lettera di Cézanne a Émile Bernard del 1904, l’artista scrive: “La letteratura si esprime per astrazioni, mentre il pittore concreta per mezzo del disegno e del colore le proprie sensazioni, le proprie percezioni” (p. 111), mentre in una conversazione con Gasquet Cézanne afferma: “il colore è il luogo in cui il nostro cervello e l’universo si incontrano” (p. 117).

E Fédier chiosa: “Quanto al realismo di cui parla Cézanne, esso significa che la cosa di cui si occupa il pittore pre-esiste alla pittura. Ora, questa cosa è il colore. Il colore è la “cosa” prima. Il colore è il fenomeno pittorico essenziale. Ma il rapporto del pittore con il colore è la sensazione.” (p. 198).

Infine, Fédier nell’analisi delle Note di un pittore (1908) di Matisse: sottolinea l’azione del pittore che – come scrive l’artista è: “condensare le proprie sensazioni”, “organizzare le proprie sensazioni” e infine -ancora Matisse - “Una volta trovati tutti i miei rapporti di tono, deve risultarne un accordo cromatico vivo, un’armonia analoga a quella di una composizione musicale” (p. 250).

E veniamo allora al rapporto colore e musica, ossia la quintessenza della sensazione profonda, che viene sottolineata dai titoli delle opere di Kandinskij proprio negli anni dello scritto di Matisse e che viene stigmatizzata nell’opera Lo spirituale nell’arte scritta nel 1910, dove a ciascun colore corrispondono una sensazione emotiva e un’impressione visiva.

Saltando a piè pari un secolo e tutto il colore che ha attraversato griglie, monocromi, geometrie e espressionismi, veniamo ad alcuni esempi recenti di innamoramento per la pittura in quanto colore.

Gerhard Richter nella mostra di Palazzo Tè a Mantova del 2018 si confronta con la figura esemplare della tradizione coloristica: Tiziano, e traduce i colori affocati e intensi del pittore veneziano in turgidi quadri astratti, dove il colore esorbitante e strisciato sulla tela sembra in realtà occultare la figura (l’Annunciazione di Tiziano) come nel Capolavoro Sconosciuto di Balzac.

La mostra termina con una sala rossa dove un vetro è stato dipinto di rosso, il colore del sangue, della passione, di Tiziano infine. Il colore si mescola sulla tavolozza, quante ne abbiamo viste rappresentate nei quadri, negli autoritratti dei pittori nello studio.

E mi viene in mente The studio (1969) di Philip Guston, con il pittore incappucciato (sugli incappucciati interpretati come riferimenti al Klu Klux Klan è nata una nota quanto sterile polemica a inizio 2021 che ha fatto posticipare di quattro anni le mostre monografiche di Guston in tre musei americani e a Londra) con la tavolozza in mano che si fa l’autoritratto e anche Pittore (1973) con lui addormentato e, su una mensolina (tradotta in verticale, ma in realtà colta citazione delle mensole di rinascimentale memoria, mediazione tra spazio reale e spazio illusorio del dipinto), in primo piano, un pennello, tre macchie di colore e la parola PITTORE in italiano; poco lontano si colloca il suo Pantheon (1973): quadro con i nomi di Masaccio, Piero…, Giotto, Tiepolo e dall’altra parte dell’epitaffio-tela, De Chirico.

Un omaggio ai grandi del passato poi tradotti nella cifra da cartoon tutt’altro che ingenua di Guston.

Si parlava di tavolozza e allora dei piattini dove si mescolano i colori diventano dei pretesti per costruire con la sostanza del colore che preesiste al dipinto proprio dei piccoli dipinti fatti di nulla: così la serie di Luca Bertolo Et in Arcadia ego #....., 2007-2009, dove quel luogo utopico e hortus conclusus altro non è che la pittura.

Singolarmente simili all’opera di Bertolo sono i piattini del cubano Hibrahim Miranda intitolati Tres Horizontes de febrero (Paletas) (Sunset), qui il richiamo è allo statuto del paesaggio che nasce con le sue componenti fondamentali (l’orizzonte) dalla tavolozza.

La tavolozza invece può dilatarsi e diventare un quadro di 200x300 cm nell’opera Tavolozza n° 3 del 2019 di Andrea Facco, dove il colore brillante e accecante sembra lievitare come se dei tubetti di colore avessero veramente appena lasciato la loro pasta sulla superficie.

Andrea Facco, che ragiona costantemente sullo statuto e sulla vita della pittura, mi mostra una Testa di Van Gogh, una scultura fatta di “Resti di Pittura” e dietro, il capo, è composto tutto da tubetti in cui il colore si è seccato e il pittore mi confida “..è colore che non ha più bisogno di un supporto-tela…”.

Il mondo è colore, noi vediamo il mondo “attraverso sensazioni colorate”, e la pittura ce lo ricorda lungo tutta la sua storia.