Sguardi che bruciano
Federica Cavaletti
02.03.2024

Il testo che segue è l'Introduzione al volume di Federica Cavaletti, Sguardi che bruciano. Un'estetica della vergogna  nell'epoca del virtuale, edito da Metemi.


Questo libro è dedicato all’esperienza della vergogna, e a come questa esperienza possa essere rimodulata attraverso l’impiego di alcune delle tecnologie mediali contemporanee – tecnologie che hanno promosso una crescente digitalizzazione, e in seguito una vera e propria virtualizzazione, di molte pratiche più o meno quotidiane. Di questo oggetto di studio complesso, questo libro dichiara di volere costruire una “estetica”.

Ma qual è, di preciso, il rapporto che intercorre tra la vergogna e la filosofia estetica? Chi intenda contenerla all’interno di un settore ben perimetrato si accorge molto presto che la vergogna sfugge a questo tentativo, dimostrandosi un costrutto di confine, che abita allo stesso tempo ambiti disciplinari diversi; proviamo a chiarire in che modo, dunque, abiti anche l’estetica.

Un buon punto di partenza potrebbe essere ricordare che la vergogna è, innanzitutto, un’emozione. E l’estetica, senza dubbio, si occupa da tempo di emozioni: per esempio, osservando i modi in cui l’arte le rappresenta e d’altra parte le induce; sforzandosi di definire la particolare risposta emotiva che sperimentiamo all’incontro con il bello, con il sublime o altre categorie estetiche; e ragionando sul perché nella fruizione artistica quelle emozioni negative che nella vita ordinaria cerchiamo di rifuggire (come la paura) diventino qualcosa che in qualche modo ci dà piacere – una questione di aristotelica memoria che dunque precede, e di parecchio, la fondazione della disciplina in senso stretto. È vero che un certo filone dell’estetica, così come della critica d’arte, ha suggerito anche con forza una distanza “precauzionale” dagli oggetti artistici, finalizzata a contenere il loro impatto emotivo: dalla teorizzazione del disinteresse kantiano alle accuse di dilettantismo rivolte a chi non fosse in grado di rispettarlo, questo orientamento ha attraversato intatto il ’900. Esso si è però infranto, come è stato rilevato di recente, con l’avvento del nuovo millennio, che ha visto non solo una rilegittimazione delle emozioni nell’esperienza estetica, ma anche un’esplosione di lavori sul tema – che ha spinto a parlare di una vera e propria “tirannia delle emozioni”1.

Il problema, però, è che tra le emozioni che entrano in gioco nell’esperienza estetica non sembra figurare di frequente la vergogna. Spesso, le arti hanno piuttosto puntato a indurre paura, sorpresa, gioia o tristezza; il dibattito sul cosiddetto “paradosso della finzione”, dunque sul perché e sul come proviamo emozioni durante la fruizione di rappresentazioni, tipicamente prende a esempio, di nuovo, la paura oppure la tristezza2. Ci sono, questo sì, casi in cui le arti possono riprodurre, in luogo di produrre, un’emozione come la vergogna: un esempio su tutti può essere il tema iconografico di Susanna e i vecchioni, che ruota intorno alla storia di una donna sorpresa nuda dallo sguardo bramoso (e indesiderato) di due uomini più anziani di lei e che anima una serie di dipinti anche molto noti. Questo libro, però, non parla della vergogna che vediamo rappresentata, ma della vergogna che sentiamo in prima persona.

Per trovare questa seconda declinazione del costrutto che ci interessa, dobbiamo abbandonare – almeno temporaneamente – gli oggetti dell’estetica. O meglio, gli oggetti in generale. E questo perché, il più delle volte, quando proviamo vergogna ci troviamo piuttosto di fronte ad altri soggetti.

Alla luce di questa considerazione, l’emozione che intendiamo esaminare può essere reinquadrata all’interno di una riflessione (di per sé ben più ampia di quella che ci accingiamo a intraprendere) sul tema dell’alterità3. Strettamente connessa in almeno alcune delle sue declinazioni all’intersoggettività, l’alterità pone domande alla metafisica e all’ontologia, all’etica, alla filosofia della mente, ma anche – e in modo non meno pressante – alla fenomenologia e all’estetica.

Nell’ambito di quest’ultima, il tema è stato affrontato da prospettive diverse e complementari: tra di esse, di cruciale importanza è senza dubbio quella che ha letto l’alterità attraverso il concetto di empatia4; ma di massimo interesse per il nostro discorso è quella proposta invece da Jean-Paul Sartre, che non a caso inaugurerà la nostra riflessione sulla vergogna nel primo capitolo di questo libro5.

Sartre, come avremo modo di approfondire, definisce l’incontro con l’altro attraverso il fattore fondamentale dello sguardo: noi ci rendiamo conto di essere in presenza di un soggetto diverso da noi quando ci rendiamo conto che questi ci guarda. Ecco allora che fa la sua comparsa il tema che si incarica di dare il titolo a questo libro, in cui la vergogna è posta sotto l’insegna dello sguardo di altri. Ma perché, come si legge in copertina, questo sguardo dovrebbe bruciare?

Il motivo risiede nel fatto che l’incontro intersoggettivo è tutt’altro che pacifico. Al contrario, è un evento dirompente che scuote le basi del nostro essere, se è vero che “l’esperienza dell’altro è sempre una trasformazione di sé”, un evento grazie al quale si sviluppa il sé sociale, che è però “una struttura instabile e necessariamente precaria”6. L’incontro intersoggettivo ci consente di aggiustare la nostra prospettiva sul mondo alla luce della scoperta che di prospettive ne esistono altre. Questa scoperta è destinata a modificare la nostra visione non soltanto di ciò che ci circonda, ma anche di noi stessi, con esiti variabili di arricchimento ma anche di destabilizzazione.

Il confronto con l’alterità costituisce, tra le altre cose, un’opportunità di validazione della nostra esperienza. Quando ci sembra di scorgere qualcosa di strano o sorprendente, istintivamente chiediamo a chi sta con noi di fornirci una rassicurazione: “Lo vedi anche tu o me lo sto sognando?”. Una persona priva di gusto e olfatto potrebbe pensare che i cibi siano del tutto insapori e inodori, se non fosse circondato da amici e conoscenti pronti a suggerirgli il contrario. È dunque una funzione indispensabile dell’altro quella di aiutarci a costruire un’esperienza che eviti uno scollamento solipsistico dal reale, e che invece combini il nostro personale accesso al mondo con quello di soggetti diversi da noi che possano completarlo e bilanciarlo.

Qual è il posto della vergogna in tutto questo? Secondo l’ottica che stiamo adottando, è possibile leggere questa emozione come un propellente che ci spinge, nel contesto dell’incontro intersoggettivo, non a registrare e a contemplare, ma piuttosto a esasperare il ruolo dell’altro: lo sguardo che ci segnala la presenza di un soggetto diverso da noi, quando induce vergogna, non invita a integrare il nuovo punto di vista con il nostro, ma tende ad annientare quest’ultimo, facendoci cadere vittime di un modo di vedere le cose sul quale non abbiamo possibilità di intervento. In luogo di aiutarci a costruire il reale, l’altro guadagna il potere di definirlo in modo inappellabile al posto nostro. E questo suo potere non si limita a riplasmare ciò che ci sta attorno, ma fa lo stesso con noi: la nostra manifestazione sensibile, dunque il nostro corpo, ma anche – essendo i due ambiti indissolubilmente legati – la nostra identità. Nella vergogna, il giudizio della persona che ci guarda è una definizione fattuale di ciò che noi siamo. Il che impone da parte nostra, ed è su questo che arriveremo a lavorare in questo libro, una scelta tra una rassegnazione a soccombere, o invece una reazione di auto-riflessione, ridiscussione e difesa.

Letta in questi termini, la vergogna assume grande interesse in chiave estesiologica: essa modifica, infatti, la nostra esperienza sensibile, diventa un importante filtro di quest’ultima, un filtro che – visti i suoi effetti dirompenti – è essenziale comprendere a fondo nel suo funzionamento.

Lo studio della vergogna, dunque, ricade a buon diritto nel perimetro dell’estetica, soprattutto quando questa sia intesa, in linea con le origini etimologiche del termine, come scienza della percezione, degli aspetti sensibili del nostro stare al mondo7.

Allo stesso tempo – e le due cose non sono affatto in contrasto tra di loro – l’emozione oggetto di questo libro solleva questioni che intercettano alcune linee di ricerca della contemporanea estetica del quotidiano (o quotidiana). Si tratta di un’altra corrente interna alla disciplina, che intende abbracciare un perimetro più ampio di quello dell’artistico o del bello, per aprirsi allo studio di oggetti, situazioni e pratiche che caratterizzano la nostra vita di tutti i giorni8.

Uno dei temi di cui si occupa l’estetica del quotidiano è l’effetto che producono su di noi gli oggetti e i contesti con cui abbiamo a che fare nelle nostre operazioni ordinarie: l’appagamento estetico, ma anche sensazioni ed emozioni di natura differente. In base alla loro configurazione e ai loro modi d’uso, le cose che incontriamo possono darci un’impressione di allegria, gentilezza, cortesia, o al contrario apparirci cupe, scontrose, riottose. Nell’ambito di questa riflessione, un concetto che è stato portato all’attenzione è quello di cura9. Quello che viene suggerito tramite questo concetto è che oggetti ma anche ambienti o spazi possano essere strutturati in maniera da esprimere un’attenzione speciale nei confronti degli utenti, venendo incontro ai loro bisogni e agevolando le loro operazioni. Un esempio potrebbe essere una lampada studiata per distribuire la luce in modo uniforme su un tavolo di lavoro senza colpire direttamente negli occhi chi se ne stia servendo; una forbice dall’impugnatura disegnata appositamente per persone mancine; oppure una stazione per il rifornimento di benzina dotata di tettoia anti-pioggia e che, a erogazione terminata, saluti gli utenti con un “arrivederci!”. A questo concetto di cura è possibile opporre quello di ostilità per come formulato prevalentemente nei settori del design, dell’architettura e dell’urbanistica, dove un oggetto, un ambiente o uno spazio è ostile quando è fatto in modo da ostacolare determinati utenti, o da respingerli10. Un esempio classico è quello delle panchine “anti-sonno”, dotate di apparenti braccioli in punti intermedi della loro lunghezza che hanno in realtà la funzione di impedire alle persone (e soprattutto alle persone senza tetto) di riposarci sopra. Ora, come vedremo, se la vergogna è innescata in primo luogo dallo sguardo di soggetti altri, essa però può anche continuare a esercitare la sua influenza per il tramite di oggetti che per così dire prolungano questo sguardo. Un sedile molto stretto, poniamo, che costringe a evidenti manovre di contenimento della propria massa o addirittura impedisce del tutto di riuscire a prendere posto su un mezzo pubblico, rinnova la vergogna corporea di una persona che sia stata accusata di essere sovrappeso. Utilizzando lo strumentario che abbiamo appena dispiegato, potremmo attribuire a oggetti o situazioni di questo tipo, che hanno l’effetto di creare un disagio psicologico nei loro utenti, una ostilità in qualche modo analoga a quella delle panchine che abbiamo evocato. E potremmo chiederci, come faremo nel corso dei capitoli che seguono, quali condizioni siano invece funzionali ad alleviare particolari esperienze di vergogna.

Con questa nota arriviamo a toccare un altro punto del titolo di questo libro che può beneficiare di qualche parola di spiegazione: la collocazione del nostro studio della vergogna nell’epoca del virtuale. Il motivo per cui, a mio giudizio, questa angolazione è particolarmente interessante risiede nel fatto che la maggior parte delle tecnologie contemporanee, siano esse riferibili al virtuale in senso stretto o più generalmente alla sfera del digitale, sono passibili di essere considerate “tecnologie dello sguardo”. Alcune di esse accrescono la nostra visibilità agli occhi degli altri, supportando in questo modo lo sguardo altrui. Ma non solo: altre tecnologie potenziano il nostro sguardo su noi stessi, permettendoci di guardarci ed eventualmente modificarci dal di fuori (per quanto possibile) e fornendoci informazioni al nostro riguardo che manifestano un grado di dettaglio senza precedenti. I social media e le comunità virtuali, per esempio, si prestano all’una e all’altra funzione: da un lato mettono la nostra immagine su un palcoscenico, esponendola a un numero di sguardi molto elevato con una frequenza altrettanto alta; dall’altro, ci consentono di intervenire su questa immagine, manipolandone i tratti in modo anche molto pronunciato. Anche la realtà virtuale, “ultima arrivata” tra le tecnologie che prenderemo in considerazione, supporta operazioni analoghe, realizzate magari anche al preciso scopo di correggere rappresentazioni di sé disfunzionali o patologiche. Se la vergogna è un’emozione “dello sguardo”, la diffusione pervasiva di tecnologie di questo genere non può lasciare inalterate le sue dinamiche. Una delle sfide di questo libro, a questo proposito, è resistere ai richiami tanto di un’incondizionata tecnofobia quanto di un altrettanto ingenuo ottimismo, impossibile da professare in un’epoca che è riuscita a produrre un disturbo mentale che letteralmente prende il nome da un social network (si tratta, come vedremo, della cosiddetta “Snapchat dysmorphia”). Quali possibilità, ci chiederemo, offrono le tecnologie mediali di oggi per una rielaborazione positivamente trasformativa della vergogna, e a quali condizioni? Questo interrogativo, portandoci sul terreno dei media digitali e virtuali nelle loro manifestazioni più concrete, ci condurrà allora ad affiancare all’apparato concettuale dell’estetica quello della teoria dell’immagine e degli studi di cultura visuale, filoni di ricerca che annoverano tra i loro oggetti i nuovi tipi di contenuti mediali in circolazione nella contemporaneità, insieme alle letture e agli impieghi innovativi cui di volta in volta essi si prestano11.

La riflessione che intendo condurre in questo libro si articolerà come segue. Nel Capitolo 1, proporrò una disamina dei contributi esistenti sul tema della vergogna, combinando capisaldi della riflessione estetica (tra altri il già citato Sartre, ma anche Georg Simmel e Max Scheler) con contributi provenienti dalla filosofia morale e dalla psicologia. Questa disamina sarà strutturata sulla base di “quattro domande sulla vergogna”, rispondendo alle quali arriverò a proporre una mia definizione dell’emozione in questione da impiegare nelle fasi successive della discussione.

Il Capitolo 2 sarà poi dedicato a circoscrivere una specifica variante di vergogna, che battezzerò “scopofobia”: una variante particolarmente intensa e inaggirabile della nostra emozione, identificata in modo ancora più imprescindibile delle altre – come suggerisce il suo nome – dalla presenza di uno sguardo. Nell’illustrarne gli effetti, lavorerò su alcuni costrutti che hanno ricevuto grande attenzione nella filosofia estetica: lo sguardo e il corpo. Chiamerò in causa inoltre, limitandomi a quanto reso opportuno dai fini della mia argomentazione, il tema dell’identità.

Un Intermezzo presenterà ragioni ulteriori, rispetto a quelle evidenziate in questa introduzione, per occuparsi di vergogna oggi. Successivamente, i Capitoli 3 e 4 si addentreranno nei meandri del mediascape contemporaneo.

Nel Capitolo 3, parlerò soprattutto del cosiddetto Metaverso e del suo potenziale ruolo di supporto per chi voglia rinegoziare i termini della propria presentazione sensibile agli altri. Più in particolare, affronterò i modi e gli effetti delle rappresentazioni virtuali del corpo fisico degli utenti, studiando diversi tipi di avatar. Esaminerò inoltre quali siano, al di là dei proclami, le reali possibilità del “Metaverso” di venire in aiuto di quegli utenti che cerchino in esso delle risorse per superare il disagio che si associa all’esperienza del loro corpo reale.

Nel Capitolo 4, invece, mi sposterò in direzione di quelle manifestazioni della vergogna che inclinano verso una caratterizzazione patologica; coerentemente, considererò le tecnologie mediali nei termini di strumenti terapeutici. Il concetto di cura di cui sopra si intreccerà allora con quello di trattamento; mi chiederò anzi fino a che punto la “terapia” offerta dalle tecnologie che descriverò esprima al contempo una cura nel senso di accudimento. Il focus sarà sui dispositivi indossabili e sulla realtà virtuale, per come impiegati, di nuovo, soprattutto in relazione alla percezione del proprio corpo.

Questo libro è punteggiato di numerosi esempi. La maggior parte di essi – debitamente modificati negli aspetti che li avrebbero resi riconducibili a persone reali – fa riferimento all’esperienza concreta di amici e conoscenti che hanno condiviso con me, ai fini della mia ricerca, il racconto di episodi e circostanze che hanno innescato in loro vergogna. Altri esempi, ugualmente “mascherati”, fanno riferimento alla mia stessa esperienza. Pur nel loro valore aneddotico, questi casi hanno permesso che la mia riflessione, nutrita dei concetti e degli strumenti della filosofia, rimanesse però ancorata in modo sufficientemente saldo alla vita reale. Che è quanto in fin dei conti questo libro, per quanto in una minima parte, si propone di contribuire a illuminare.




1 P. D’Angelo, La tirannia delle emozioni, il Mulino, Bologna 2020. Come D’Angelo stesso segnala, alcuni lavori pionieristici (e peraltro di indubbia qualità) hanno aperto la strada a questa svolta verso la fine del ’900. Si pensi in particolare a D. Freedberg, The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response, Chicago University Press, Chicago 1989; tr. it. Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 2009.

2 Il punto di avvio di questo dibattito è considerato C. Radford, M. Weston, How Can We be Moved by the Fate of Anna Karenina?, in “Proceedings of the Aristotelian Society, Supplementary Volumes”, n. 49, 1975, pp. 67-93; per una ricostruzione dei principali sviluppi contemporanei della discussione, cfr. F. Cavaletti, Finzione, in A. Pinotti (a cura di), Il primo libro di estetica, Einaudi, Torino 2022, pp. 84-95.

3 Su questo tema, cfr. V. Costa, Alterità, il Mulino, Bologna 2001.

4 Su questa tradizione, cfr. A. Pinotti, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Laterza, Roma-Bari 2011.

5 J.-P. Sartre, L’être et le néant: Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943; tr. it. L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano 2014.

6 V. Costa, Fenomenologia dell’intersoggettività. Empatia, socialità, cultura, Carocci, Roma 2010, p. 115.

7 Nella direzione di una “estetica della vergogna” si muovevano del resto alcuni importanti contributi compresi nel quinto numero di Sensibilia: E. Antonelli, M. Rotili (a cura di), La vergogna / The Shame, Mimesis, Milano-Udine 2012. Cfr. in particolare, in questa raccolta, A. Carnevale, L’imbarazzo della vergogna, pp. 65-80; S. Chiodo, La vergogna irrimediabile, pp. 89-98; M. Di Monte, La vergogna dell’estetica. Emozione, cognizione, normatività, pp. 123-149; T. Griffero, Vergognarsi di, per, con…Le atmosfere della vergogna, pp. 161-190.

8 Su questa declinazione della disciplina estetica, cfr. E. Di Stefano, Che cos’è l’estetica quotidiana?, Carocci, Roma 2017; G. Matteucci (a cura di), Estetica e pratica del quotidiano, Mimesis, Milano 2015.

9 Cfr. soprattutto Y. Saito, Aesthetics of Care: Practice in Everyday Life, Bloomsbury, London 2022.

10 Cfr. per esempio R. Rosenberger, On Hostile Design: Theoretical and Empirical Prospects, in “Urban Studies”, vol. 57, n. 4, 2020, pp. 883-893.

11 Cfr. A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016.



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