Su ottimismo e pessimismo riguardo alla crisi ecologica
Gianluca Viola

26.09.2022

Qualsiasi tentativo d'indagine che voglia investire il presente storico in cui viviamo non può non tenere conto della difficoltà che accompagnano il presentarsi alla coscienza del presente in quanto oggetto storico; ovvero in quanto "oggetto" che sfugge continuamente allo schema della conoscenza, per come esso è stato strutturato nell'immaginario filosofico occidentale.

Niente è più estraneo al tentativo di penetrare l'enigma del presente che tentare di effettuare una manovra di "sorvolo", l'instaurazione di una distanza illusoria che ci permetterebbe di afferrare l'esteriorità del presente, in quanto oggetto avulso dalla nostra esistenza e della nostra presenza al mondo – qualcosa che ci rimane esterno, verso il quale possiamo adoperarci nel senso dello scarto a partire dal quale questo stesso oggetto ci si pone di fronte, pronto ad essere, ad esempio, adoperato, utilizzato, conquistato. Il mondo come oggetto empirico e il presente come oggetto storico-temporale, in cui questo stesso mondo si dispone, ci potrebbero apparire allora nella modalità dell'essere a disposizione per il soggetto umano della conoscenza – affrancato, mediante l'isolamento, dalla preminenza dell'esperienza reale, naturalmente vissuta, del mondo e del presente: l'implicazione.

Giacché in ogni istante della nostra vita siamo immersi in un mondo e in un presente che non sta al di fuori di noi, ma che ci implica costantemente, che occupa tutto lo spazio esteriore e interiore della nostra esperienza, non v'è alcun luogo in cui tale operazione di "sorvolo" possa effettivamente effettuarsi e occorre sfuggire all'illusione di un presunto paradiso d'immunità del soggetto conoscente - dal momento che, qualora questo effettivamente si possa dare, sarebbe sempre una pratica interna al mondo e una pratica, a rigore, del presente stesso.

La conoscenza storica non può che essere dunque una conoscenza vissuta e un'indagine sul presente, condotta al di fuori dell'illusione della neutralità, implica sempre un certo posizionamento rispetto al presente e l'assunzione di un certo atteggiamento; in una sola formula, essa è prassi e soltanto prassi e il procedere storico non può essere letto sotto l'ottica progressiva tipica della filosofia della storia e nemmeno attraverso una sua claudicanza, un suo continuo inciampare – un procedere, dunque, fatto di rotture, di improvvise accelerazioni e poi di repentini crolli d'intensità -, ma in quanto dispiegamento della molteplicità delle prassi che i soggetti - radicati su un unico pianeta ma implicati in mondi temporalmente, antropologicamente e geograficamente differenti -, si sono trovati a mettere in opera, nel tentativo di vivere il presente.

Tutto ciò è tanto più vero quando volgiamo lo sguardo proprio al nostro presente, alla nostra implicazione in questo presente e all'interrogazione che questo presente ci pone; non può sfuggirci, allora, la preminenza della crisi ecologica in ogni discorso possibile sul presente, dalla questione ambientale – sempre più decisiva -, alle questioni legate al panorama psichico, sociale e inter-culturale della nostra esperienza storica attuale: crisi ecologica che si presenta sempre più in quanto crisi della Relazione e in quanto crisi dell'interazione tra sistemi e prassi differenti.

Se l'interrogazione che il presente non cessa in alcun momento di affidarci concerne questa vera e propria tragedia della Relazione, in questi anni assolutamente decisivi, soprattutto per quel che riguarda la questione ambientale, tutto si gioca, appunto, secondo questa caratterizzazione: se, in alcuni casi, l'atteggiamento rispetto alla crisi rimane l'indifferenza o, nei casi peggiori, la negazione, più la coscienza dell'influenza di queste problematiche sulla vita reale dei soggetti si va diffondendo, più sembra che due atteggiamenti divengano, a loro volta, preponderanti: da un lato, un certo ottimismo nelle capacità umane di "risolvere" l'enigma legato all'avvenire, attraverso lo sviluppo della scienza, della tecnica e della tecnologia, specialmente; dall'altro, un pessimismo apocalittico, che predice disastri rispetto ai quali risulta impossibile salvarsi e ci consegna il profilo di un'epoca destinata alla distruzione e di una specie, quella umana, destinata a un'estinzione che qualcuno, perfino, si augura.

Ottimismo e pessimismo – come disposizioni psicologiche e atteggiamenti, prima che come sistemi filosofici – risultano entrambi da una medesima operazione: piuttosto che una semplice negazione del presente – rispetto a un futuro che si vorrebbe glorioso, in cui la negatività dell'attuale verrebbe superata, oppure secondo una rassegnazione che conduce all'annichilimento del presente stesso e, con esso, del futuro -, essi concorrono all'esasperazione del presente, in positivo o in negativo; essi non colgono il presente nella sua dimensione effettiva, ma cercano di effettuare quel "sorvolo" che consente di esaltare alcuni elementi del presente, isolandoli dalla complessità di quest'ultimo; nel caso dell'ottimismo riguardo alla crisi ecologica, vengono isolati gli elementi legati allo sviluppo tecnologico ed esasperati il lato tecnico e la conoscenza scientifica del nostro presente; nel caso del pessimismo apocalittico di cui sopra, vengono isolati gli elementi legati alla negatività dell'azione umana e della stessa esistenza dell'uomo sul pianeta, ed esasperato il suo carattere fondamentalmente distruttivo.

In entrambi i casi, viene "sorvolata" la nostra implicazione nel presente, giacché l'affidamento, da un lato, e la rassegnazione, dall'altro, rimandano sempre a qualcosa che è fuori di noi, che ci riguarda solo esteriormente, permettendoci, così, di perpetuare un certo modello di isolamento – per altro, tanto decisivo proprio rispetto a tali questioni. Entrambi questi atteggiamenti sembrano obliare la nostra esperienza nel presente e del presente e si possono ridurre a queste due espressioni, a partire dalle quali nessuna prassi differente può esser data: "le cose si risolveranno da sé, dunque non c'è da preoccuparsi"; "non c'è alcuna possibilità che le cose si risolvano, dunque siamo condannati". Da un certo punto di vista, l'ottimismo così praticato è perfino più pericoloso del pessimismo apocalittico, dal momento che esso tende a mantenere intatte le prassi precedenti, praticando qualche piccolo accorgimento che pure tanto successo riscuote in questo periodo – il cosiddetto greenwashing tentato ormai da molteplici grandi aziende, garanzia della continuità dei processi profondi che hanno causato molti dei disastri contemporanei.

L'ottimismo è, paradossalmente, più rassegnato del pessimismo: se è vero che entrambi gli atteggiamenti non possono fare a meno di un'apertura al possibile, l'ottimismo riguardo alla crisi ecologica chiama possibile solo un'esasperazione del reale e quell'esasperazione del reale che concerne unicamente gli elementi progressivi del reale stesso; in questo senso l'ottimismo è rassegnato alla continuità dell'eterno presente della crescita e del progresso e vive nella certezza che, davvero, tutto continuerà come prima. Il pessimismo, almeno, è una rottura netta con tale illusione, ed è questo il suo vero punto di forza: non necessariamente, del resto, una prospettiva pessimistica deve condurre a un'apocalittica della realtà, tutt'altro: poiché il miglior pessimismo evoca, nel presente e in ogni istante, il fantasma della catastrofe imminente, esso rappresenta una vera apertura al possibile, per quanto disperata.

Il pessimismo apocalittico è un pessimismo a metà, poiché utilizza la prospettiva dell'estinzione e della fine del mondo come un espediente, in ultima istanza, consolatorio: alla fine avremo ciò che ci meritiamo, la nostra specie perirà e con essa tutti i suoi disastri e le sue contraddizioni. Ciò - è un paradosso - può consolarci: almeno per quanto possa essere consolatoria la prospettiva di una morte rapida per un sofferente al quale è impossibile qualsiasi guarigione.

Un pensatore radicalmente pessimista come Emil Cioran ci rammenta, però: «L'uomo più ammalato rinuncia alla speranza, al futuro – non però al possibile. E che cos'è il possibile per una creatura perduta? Un barbaglio di luce, un miracolo in senso alla propria identità. […] E poiché l'irreparabile è la più schiacciante di tutte le evidenze, per smentire questa rivelazione elementare l'uomo avanza la possibilità di un altro istante» [E.Cioran, Finestra sul nulla, Adelphi, p. 52]. Laddove l'ottimismo è tutto teso verso il futuro, il pessimismo, così inteso, nutre la prospettiva del possibile con il pur terribile pane quotidiano della catastrofe: esso resiste all'irreparabile, che pure crede indubbio, attraverso un'ulteriore negazione, la negazione di questa stessa irreparabilità in nome del possibile – particolare negazione del reale filosoficamente orientata alla sua sovversione.

In questo modo, il pessimismo spezza l'illusione di un destino di continuità per accogliere nel suo grembo gli elementi di un'alterità fugace, che solo raramente appare ma che ci implica in un discorso di senso che rimane continuamente da porre – discorso centrato sull'attualità della nostra presenza al mondo, della nostra aderenza al presente, che né neutralizza, né schiva il pessimum che in esso riposa. Essere pessimisti riguardo alla crisi ecologica – senza scadere nell'apocalittica - significherebbe, dunque, nient'altro che questo: essere radicalmente implicati nel peggio che ci viene incontro e riuscire a scovare, in esso, la pallida luce capace di negare la catastrofe che pure la contiene, per volgerla nell'epifania di un presente, finalmente, altro.