Sul bisogno di una nuova civilizzazione
Ubaldo Fadini

17.10.2022

Se c’è qualcosa che contraddistingue il lungo percorso della ricerca complessiva di Edgar Morin è la sottolineatura del bisogno quanto mai impellente di una “nuova civilizzazione”. Prendendo in mano i suoi tanti testi degli ultimi due decenni, non si può fare a meno di osservare come essi contengano una fenomenologia, preziosa concettualmente, riguardante i diversi mali della nostra civiltà. Sono noti i capisaldi della ricerca del filosofo francese: la convinzione che vivere sia una avventura e che ciò richieda – nel senso del confronto con una incertezza di fondo mai del tutto rimovibile – un più di conoscenze pertinenti riferibili alle tante problematicità che non si possono non incontrare, in grado di mettere a valore tutta una serie di insegnamenti a cui prestare particolare attenzione, da quello che riguarda il conoscere come si conosce a quello che concerne proprio l’insegnare a insegnare e il comprendere come si comprende e si comunica.

Vivere significa quindi affrontare l’incertezza e questo non può che risultare effettivamente importante soprattutto nel momento in cui siamo decisamente collocati in una “società del rischio”, per dirla con Ulrich Beck, esposti cioè a stimoli/fenomeni che mettono in pericolo i nostri già traballanti equilibri e che richiedono un più di decisione, il rischio appunto proprio del decidere/“rischiare”. In tale ottica, si ha bisogno certamente di competenze tecno-professionali ma anche e soprattutto di competenze esistenziali, quelle veramente in grado di collegare i saperi appresi/acquisiti alla vita. Soltanto quando questo sarà assicurato e coltivato, allora riusciremo forse a vivere e non semplicemente a sopravvivere, ad articolare cioè un ben-vivere – in termini di solidarietà, convivialità (Ivan Illich) e spirito critico/libero – comprensivo di quel ben-essere che troppo spesso viene consegnato alle logiche della cosiddetta “società dei consumi”, con il suo principio rivolto a celebrare ad ogni costo la massimizzazione dei profitti (per alcuni e non per i molti).

Morin reclama così anche una filosofia del saper vivere, di un vivere attrezzato con saperi/conoscenze capaci di incrementare le possibilità di scelta dei soggetti (Heinz von Foerster). Non dimenticando comunque che l’esistere comporta sempre un po’ di dispendio, qualcosa di poco ragionevole rispetto ai quadri sociali di conformazione della vita individuale e collettiva. In Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione (2014), si può leggere un passo di richiamo a Cornelius Castoriadis, laddove quest’ultimo afferma come l’essere umano sia in definitiva un “animale folle la cui follia ha inventato la ragione”, il che significa sostenere, tra l’altro, che non è pensabile individuare/cogliere un vero e proprio criterio ragionevole per qualificare pienamente una esistenza come appunto assolutamente ragionevole.

Certamente si fanno i conti oggi con una crisi multimensionale e Morin ha anche ultimamente affrontato i fenomeni terribili della pandemia e della guerra alle porte di casa, per così dire, con le loro ricadute concrete e le proiezioni spaventose. La sua convinzione di fondo è che si possa tentare di uscirne, se mai sarà possibile, con una “nuova civilizzazione” che richiede con forza una riforma del nostro modo di pensare, della nostra intelligenza e sensibilità, da cui potrà risultare un più di consapevolezza rispetto alla sempre minore tenuta e credibilità/sostenibilità dell’odierna strutturazione del modo di produzione capitalista, con il suo “funzionamento”. A ciò non può che collegarsi una riforma cruciale come quella del sistema dell’istruzione, ovviamente sotto veste pubblica, il cui effetto dovrà essere raffigurato da una pratica educativa veramente “rigenerata”. Si sa che la “policrisi” della scuola (e poi dell’università) deriva da tanti fattori.

L’esempio che Morin ci fornisce di tale crisi, calandolo nella realtà dell’insegnare, è illuminante e prende corpo nella nozione della “bio-classe adolescente”, nella quale emergono differenze di carattere culturale che interessano le ragazze e i ragazzi, nei rapporti tra di loro, ma anche gli insegnanti, nel loro confrontarsi e nel loro interagire con gli “insegnati”. Quello che il filosofo francese evidenzia è il manifestarsi di una conflittualità (scherzando, parla di “lotta di classe” tra insegnanti e insegnati…) che però non va considerata soltanto in negativo, in quanto è invece possibile apprezzarla come una risorsa indispensabile per rovesciare la “crisi della cultura” che così si manifesta in uno stimolo reale a fornire dei contributi specifici a progetti e pratiche di rigenerazione umana e sociale.

Saper vivere è un compito difficile che quindi può essere in parte affrontato attraverso una riflessione seria sulla crisi attuale dell’educazione e dell’insegnamento. L’esigenza avvertita da Morin, ancora più acuta oggi, è quella di “cambiare rotta”, di “cambiare strada”, per riprendere uno dei suoi ultimi testi, dedicato alla crisi pandemica. Si può cercare infatti di vivere meglio, di affrontare allora la stessa crisi di civiltà, nel momento in cui si riesce a insegnare a vivere.

Quest’ultima pratica complessa è resa possibile laddove si comprenda l’importanza di ricucire l’ormai secolare rottura tra le due componenti dell’impresa culturale, quella scientifica e quella umanistica. Comprensione resa problematica dal fatto che i bisogni tecno-economici della nostra società vengono restituiti in una forma tale da giustificare ancor di più il restringimento della componente umanistica nel sistema dell’istruzione. In questo senso, si prospetta ancora una volta, nei testi dello studioso francese, una critica ad un eccesso di protagonismo delle pur essenziali conoscenze calcolatrici e quantitative a scapito delle conoscenze più propriamente riflessive e qualitative.

Ma non è questo il nodo teorico su cui vorrei soffermarmi, al di là della sua ovvia rilevanza e pure estrema delicatezza. Mi interessa soprattutto rilevare il discorso della “rigenerazione”, che tiene insieme educazione e proposta teorica (filosofica) complessiva, oltre che fornire sostanza all’immagine della stessa “nuova civilizzazione”. Un ostacolo serio a tale processo di “rinascita” è proprio da cogliersi nel fatto che non sembra più possibile comprendersi e che su tale base di seria criticità appare allora veramente importante cercare di realizzare un approfondimento del perché tra gli esseri umani, tra le loro relazioni, abbia ormai la meglio l’incomprensione.

In questa prospettiva, Morin insiste sulla differenza tra spiegare e comprendere, un cavallo di battaglia dell’impostazione teorico-critica di matrice classicamente ermeneutica, sostenendo la necessità di accompagnare la comprensione intellettuale con quella più immediatamente “umana”, mossa anche dal bisogno dell’auto-riconoscimento per via della presenza dell’altro. In effetti, quello che permette un reale collegamento tra le due modalità di comprensione è la raffigurazione dell’essere umano come essere costitutivamente “instabile”, come una “imperfezione” che però funziona (per riprendere così Telmo Pievani).

Sarebbe forse stimolante ritornare a questo punto su alcune tradizioni della filosofia novecentesca, ad esempio la philosophische Anthropologie, nel momento in cui si mette in piedi un ragionamento sulla “comprensione antropologica” al fine anche di evidenziare alcune delle cause del degrado ecologico e sociale che riguarda la qualità complessiva della vita e che viene reso particolarmente manifesto dalla “progressiva” atrofizzazione delle nostre attitudini sensoriali e cognitive, ma quello che più colpisce della riflessione moriniana è la qualifica di segno etico-politico di un comprendere che va coltivato per prevenire la violenza e favorire la migliore disposizione “benevola” (il ben-volere per il ben-vivere) nei confronti del vivente complessivo.

È proprio il sistema dell'istruzione a risultare essenziale nel momento in cui può restituirci la singolarità irriducibile dell'homo complexus, le ragioni di fondo dell'avventura umana, e più nello specifico il fondamentale modo di procedere cognitivo in grado di collegare concretamente, di evidenziare operativamente i rapporti tra le entità prese in considerazione e i loro contesti di riferimento; senza rimuovere il fatto che questi ultimi sono a loro volta rinviabili ad altri spazi/ambiti, ad altri contesti e in definitiva a particolari insiemi.

In quest'ottica mi sembra che ci sia la possibilità appunto di connettere le posizioni di Morin – su un piano metacritico, per così dire – con alcune riflessioni di Tim Ingold a proposito del rapporto tra “antropologia ed educazione” (in Antropologia come educazione, 2018), nel momento in cui lo studioso inglese sottolinea, confrontandosi con la filosofia dell'educazione di John Dewey, come la pedagogia sia l'arte dell'insegnare, nel senso determinato da una pratica educativa complessiva che si delinea in un vero e proprio prestare attenzione alle cose, alle persone, alle situazioni, al mondo in generale. In tali termini, va sottolineato come l'educazione non sia soltanto trasmissione di saperi, di conoscenze; è certamente anche questo ma, insieme, è attività trasformativa capace di rendere la nostra sensibilità e la nostra intelligenza sempre meglio disposte “socialmente” nei riguardi di una società complessa. E ciò non per motivi di relativo adattamento alle strutture, alle configurazioni di quest'ultima. Ingold appartiene infatti ad un ambito diversificato di ricerca che prende atto della rottura evidente del rapporto tra noi soggetti e appunto il “mondo”, per cause molteplici (soprattutto per fattori di ordine economico e politico), ed è rispetto a tale venir meno dell'“essere-nel-mondo”, per metterla “classicamente”, che bisogna insistere sul valore della partecipazione e dunque della comunicazione, una volta che si sa come l'essere umano sia un essere proprio di parte, di relazione, di “fantasia”: da un punto di vista antropologico, come mi capita spesso di rimarcare.

Accanto ai concetti di trasmissione/trasformazione e a quello di comunicazione/comprensione, Ingold aggiunge la nozione di ambiente sulla base del fatto che comunicazione significa un mettere in comune l'esistenza e che trasmissione indica una “perpetuazione” di quest'ultima non nell'ordine della semplice ripresentazione del sempre-uguale. In quest'ottica, l'ambiente è la condizione di possibilità della loro variazione ed è a questo punto che si dà la ripresa diretta di Dewey, allorquando l'autore di Esperienza ed educazione (1938) afferma che l'ambiente è da intendersi come ciò che nei suoi contenuti/aspetti è in grado di mutare l'essere umano. In effetti, l'educazione dovrebbe portare ad un affinamento “delle nostre capacità di rispondere e di ricevere domande”.

La coltivazione delle “abilità di risposta” è in breve alla base di tutte le modalità di apprendimento e restituisce un processo di rinnovato collegamento con il “mondo”, un effettivo corrispondere. A tale motivo, quello del corrispondere, va assegnato il compito, tra gli altri, che appare decisivo nel tentativo di ribadire le ragioni plurali di un “umanesimo rigenerato” (così Morin), sostenuto dai principi della solidarietà, della collaborazione/condivisione e della responsabilità. E a ciò va riferita anche la convinzione che è proprio sulle linee della corrispondenza, sugli sviluppi delle attività del corrispondere ad ogni livello della vita sociale, che cresce/matura quell'incremento di possibilità di scelta per via dell'acquisizione di conoscenze e di saperi incessantemente riformulati, quella progressione delle pratiche di attenzione e di cura da parte di “esseri umani in divenire” che può favorire i primi passi di una civilizzazione profondamente diversa da quella che abbiamo ancora presente.