Sulla “forza finita”. A proposito di Rachel Bespaloff
Ubaldo Fadini

21.05.2023

La pubblicazione del primo volume delle “opere” di Rachel Bespaloff, iniziativa editoriale di grandissimo respiro (prima edizione mondiale complessiva dei testi), consente di entrare in effettivo rapporto con una filosofa imprescindibile per qualsiasi tentativo di afferrare temi, motivi e figure essenziali della cultura novecentesca. L'eternità nell'istante. Gli anni francesi (1932-1942) si presenta infatti come una introduzione preziosa ad un complesso di testi di una studiosa di rara profondità, in grado tra l'altro d'intercettare i percorsi di ricerca e le attenzioni concrete di alcuni dei maggiori intellettuali del suo tempo, quali, tra gli altri, Gabriel Marcel, padre Gaston Fessard, Boris de Schloezer, Benjamin Fondane e Jean Wahl.

Bespaloff nasce nel 1895 da una famiglia ebrea di origini ucraine e cresce a Ginevra, studiando danza e musica. Si sposta poi a Parigi dove l'incontro con Lev Šestov la stimola a sviluppare la ricerca filosofica, a partire dal 1925. L'incontro con Daniel Halévy è successivamente alla base di una “lettera”, pubblicata sulla “Revue philosophique de la France et de l'Étranger” (1933: la “lettera” è datata 20 ottobre 1932), dedicata ad una puntuale e particolarmente preziosa analisi della sua “avventura con Heidegger”, con Essere e tempo. Negli anni della guerra è costretta a lasciare la Francia e a trasferirsi a New York. Inizialmente lavora per “La Voix de l'Amérique”, emittente radiofonica, e poi insegna “Letteratura francese” al Mount Holyoke College, in Massachusetts, organizzando gli importanti “incontri di Pontigny-en-Amérique”, coinvolgendo Jacques Maritain, Jean-Paul Sartre, Hannah Arendt e numerosi esuli europei. Di quegli anni è da ricordare sopratutto la traduzione in inglese, a cura di Mary McCarthy, del saggio sull'Iliade, pubblicato prima in francese (1943) con una prefazione di Jean Wahl e poi presentato da Hermann Broch. La durezza dell'esilio, la lontananza dalla Francia, la scomparsa del marito concorrono a prendere la decisione di togliersi la vita nell'aprile del 1949.

Già queste righe sulla sua biografia suggeriscono come ci si trovi di fronte a un itinerario esistenziale e teorico di grande spessore, reso manifesto anche dai numerosi epistolari con straordinarie figure di intellettuali dell'epoca. E la cura attenta ed estremamente informata di Cristina Guarnieri e Laura Sanò, con i loro contributi di carattere introduttivo e insieme critico-analitico (a cui va aggiunta anche la prefazione di Monique Jutrin, la studiosa che per prima ha evidenziato a livello internazionale il valore elevatissimo dell'opera complessiva di Bespaloff), ha il merito di evidenziare come la ricerca della filosofa scaturisca da “incontri” con autori a volte anche radicalmente diversi. Ho ricordato Heidegger e ho menzionato altri studiosi. Ma a questi bisogna aggiungere la lettura di Kierkegaard e Nietzsche; e poi André Malraux, Julien Green e potrei continuare a lungo. Senza tralasciare il fatto, richiamato da Wahl nella prefazione all'edizione francese del testo sull'Iliade, accanto al riconoscimento delle profonde differenze, che anche Simone Weil aveva commentato il poema omerico in apertura degli anni '40.

Dal ricchissimo multiverso tematico dell'opera bespaloffiana vorrei estrarre in quello che segue alcuni motivi che sento prossimi allo sviluppo di alcune mie ricerche. So che rischio così di essere estremamente parziale nella mia lettura, di tradire in parte la “lettera” propria della filosofa, ma non posso che espormi in tal guisa nei confronti di un procedere “saggistico” che avverto comunque come effettivamente vicino. In primo luogo è la “lettera” su Heidegger che rafforza l'idea che nell'atto di parola e, insieme, nella musica la filosofa abbia individuato dei modi veramente umani di resistere alla morte, per riprendere così Malraux. A tale proposito ricordo anche delle osservazioni di Gilles Deleuze sull'arte e sulla politica (là dove si confligge, si combatte...) come appunto atti di possibile resistenza alla morte, alla pratica sistematica della enunciazione di “parole d'ordine”, di ciò che assicura un apparente “passare” che in realtà non è altro che la certificazione della presa potente di un controllo sul vivente che si pretende senza incertezze e smagliature, indubbiamente effettuale e solido.

La questione centrale è: che cosa resiste alla morte? Certo qui entra in gioco Heidegger in un senso che piega in direzione del riconoscimento della fragilità del nostro rapporto con il “mondo”, di un esistere così angoscioso e disperato da mettere a valore tali “qualifiche” in un essere-per-la-morte che può permettere la riscoperta del possibile, di un modo differente di fare i conti con la condizione inautentica del vivere. E quest'ultimo è percepito, grazie al profilarsi di tradizioni di pensiero non soltanto filosofico, come qualcosa che si fa e si disfa, si attiva e disattiva, in un processo che non si risolve però nell'azzeramento definitivo delle ragioni di vita e della sensibilità stessa. Bespaloff è una “combattente”, certo, nel momento in cui si schiera a favore di un'etica per la libertà (di un pensiero etico che comunque senz'altro si combina con quello tragico...), di un'etica che kierkegaardianamente affonda le sue radici nell'esistenza umana, contro quelle morali di servizio che in fondo non consentono neppure di afferrare minimamente il perché Dio sia assente e così impediscono di fatto il riconoscimento di quell'assenza come paradossale fattore di conferimento di senso, altrimenti impossibile o ricondotto alla misura dell'insensato.

È nel testo sull'Illiade che si può leggere un passo che appare ben indicativo rispetto allo specifico posizionamento teorico della filosofa: “L'etica stessa è anzitutto un istante di risurrezione, un'insurrezione della forza finita contro la propria decadenza e corruttibilità” (p.506). E l'istante è appunto l'effettuazione della “forza finita” che si compone/scompone incessantemente, la possibilità concreta del ripetersi di quel cruciale differire che è proprio di ogni esistere e che vale singolarmente quale vero e proprio atto di libertà. È in quest'ottica che viene ad essere affrontata la stessa questione della trascendenza, ciò che trova una sempre parziale risoluzione nell'immanenza dell'operare, in quella sperimentazione che mette a valore l'immaginazione umana con il suo vero (perché appunto fantastico) potere di trascendimento.

Quest'ultimo, radicato nell'istante, imbarazza letteralmente qualsiasi pretesa di reiterazione di qualcosa che si spacci come definitivamente identico a se stesso. L'istante spezza il filo disteso dalle teleologie storiche, fuoriesce dai quadri di normazione/normalizzazione delle loro articolazioni, e in questo senso eternizza, lo rende necessario, il rinnovamento, la “realizzazione creatrice”, il manifestarsi dell'atto di libertà. Cristina Guarnieri sottolinea acutamente come l'atto creatore sia la chiave di volta dell'istante proprio perché esso trasmette quell'“amore per la vita” che attraversa l'esistere anche nelle sue espressioni più cupe e dolorose:

“Un tormento profondo dilania l'esistenza. Eppure, nonostante tutto, al di là di ogni orrore, una volontà di vita caparbia insiste, preme per farsi largo. L' 'amore per la vita' che l'istante creatore fa penetrare nel mondo è la risposta filosofica di Bespaloff alla morte che si trova nel cuore della durata. (…) La morte resta intrascendibile, poiché non sarebbe accettabile un pensiero che ritenesse di poterla rimuovere o superare dialetticamente. Al contempo, però, chi si affida alla voce dei profeti e alla lezione biblica non può avere la morte come unico orizzonte. La morte è indistricabilmente annodata alla vita. L'istante luminoso della poesia, della musica, dell'atto creatore, dischiude una 'trascendenza immanente, un istante di resurrezione non al di là ma nel cuore stesso della durata. Bespaloff tiene viva la conflittualità di una vita che deve saper abbracciare la finitezza in quanto parte dell'esistenza, come se ne fosse la piega interna. La sua attenzione si concentra nell'istante di massima approssimazione al baratro” (Cristina Guarnieri, L'angoscia del baratro e l'istante luminoso del canto, in R. B., L'eternità nell'istante, pp.616-617).

Alla “voce dei profeti” e alla “lezione biblica” verrebbe subito da affiancare le pagine di Franz Rosenzweig o le parabole kafkiane, per non parlare del lavoro dell'ultimo Benjamin sul concetto di storia, anche per afferrare meglio il motivo dell'incompiutezza appunto creatrice del passato. E la stessa figura della forza finita mi piacerebbe proiettarla sull'etica spinoziana, sulla rilevazione della virtualità propria dei modi dell'esistere, ma per concludere vorrei ritornare sul tema deleuziano dell'atto di creazione, ricordando come esso sia specifico anche della filosofia come particolare disciplina che inventa/crea concetti.

Certamente il filosofo francese rinvia – nella sua conferenza del 17 marzo del 1987 – al cinema, alla pittura, alla musica (e anche all'attività propriamente scientifica, nella sua particolarità) come attività creatrici e quindi come atti di resistenza al mortifero “sistema controllato delle parole d'ordine che valgono in una determinata società”. Ma pure la filosofia può essere considerata come pratica effettiva di carattere inventivo soprattutto nel momento in cui vale, quale atto di concetto, come resistenza. Mi piace cioè pensare alla filosofia come quell'atto di resistenza che oltretutto ha anche un risvolto umano che rinvia appunto alla “lotta di uomini”, in quanto per resistere alla morte, al primato del morto sul vivo sempre più esplicito/manifesto nel nostro “mondo”, è indispensabile tentare di rendere l'improbabile concretamente possibile, cioè ancora più radicale e palpitante il percorso/transito dell'umano.