Tante storie tutte assieme, una storia in tanti pezzi
Matteo Gaspari
Hamelin Associazione Culturale
Tarocchi © Marco Libardi, 2021

24.12.2021

Nel 1969, Italo Calvino dà alle stampe il romanzo breve Il castello dei destini incrociati. Uscirà poi di nuovo qualche anno dopo, completato da una seconda parte ambientata in una taverna, nella versione che siamo abituati a trovare ora in libreria.

È un libro straordinario al quale sono, inutile nota personale, particolarmente affezionato. Ma d’altro canto esistono libri di Calvino che non siano straordinari?

Un viandante attraversa un bosco e, stanco per il viaggio, si ferma per rinfrancarsi e mangiare qualcosa in un castello, appunto. Giunto alla mensa si accorge d’aver perso l’uso della parola, e come lui i suoi commensali.

Ma l’istinto, forse la necessità, di condividere la propria storia e di ascoltare quella degli altri è troppo impellente, così gli avventori iniziano il loro condividere con l’ausilio di un mazzo di tarocchi.

Poggiano uno alla volta sul tavolo un arcano, in sequenza, a costruire una narrazione fatta di simboli da interpretare: il due di bastoni può rappresentare una coppia di briganti, la Torre il luogo dell’infausto incontro e il 7 di denari l’entità del furto subito.

È un gioco sulla costruzione di un alfabeto simbolico e un esperimento metanarrativo di rara potenza, una storia sulle storie e sul loro afflato archetipico, ma non è questo che ci interessa in questa sede.

Immaginiamo di essere in questa sala. Sta a noi condividere la nostra esperienza e pertanto ci viene porto il mazzo dei tarocchi. O meglio, quello che ne rimane: altri prima di noi si sono cimentati nell’impresa, e alcuni arcani già stanno sul tavolo.

A noi non resta che selezionare le più pertinenti tra le carte rimaste e sfruttare quelle già poggiate in un continuo gioco d’incastri che completi la nostra sequenza. Una sorta di Scarabeo, per capirci. A nostra volta porgeremo poi a qualcun altro i tarocchi avanzati e via dicendo, finché a fine serata la settantina di carte sarà tutta ordinatamente disposta in una griglia di storie che si intersecano l’una con l’altra, attraverso le quali muoversi ora in orizzontale ora in verticale.

Questo esperimento di racconto combinatorio, in cui ogni elemento – ogni sequenza – ha valore in sé ed è al contempo parte di una struttura più grande mi ricorda, in un qualche modo, uno dei modi della narrazione seriale a fumetti, soprattutto – ma non esclusivamente – supereroistica.

E questo sia per struttura intrinseca che per l’approccio alla lettura che quella struttura suggerisce. Mi si permetta un esempio a suo modo antico, perché in questi casi le persone sono sensibili agli spoiler, anche minimi. Questione che meriterebbe a dire il vero un approfondimento a parte.

Nel marzo 2007, Panini Comics pubblicava in Italia il primo albetto di Civil War, crossover che sarebbe diventato in breve tempo fondamento dell’universo Marvel contemporaneo e che partiva (non sempre in maniera efficace) da una domanda che ritengo di particolare interesse: i supereroi devono rispondere a qualcuno? E, se sì, a chi?

Giusto per dare un paio di dettagli di trama: a causa di un gruppo di giovani eroi un pochetto spavaldi succede un casino nel quale muoiono tanti bambini, ma proprio tanti (tipo più di zero); l’opinione pubblica si ingastrisce e chiede che i super siano supervisionati – e gestiti – dal governo.

Si creano così due fazioni. Da un lato Tony Stark/Iron Man, favorevole alla riforma, che si assumerà l’onere di schedare e disciplinare tutta l’attività superumana (e di punire i dissidenti). Dall’altro Capitan America che, per interesse personale mascherato da ideologia (o viceversa?), si oppone a questa “limitazione della libertà” dando vita a una resistenza anti-governativa.

I due perderanno poco alla volta il controllo della situazione, scivolando ampiamente nel fascismo il primo e nel terrorismo il secondo, così nel corso dei 7 volumetti che compongono la storyline principale vedremo le posizioni inasprirsi e radicalizzarsi, in un’escalation a tratti foriera di riflessioni fattesi molto attuali. Il tutto si conclude con un anticlimax posticcio a chiudere 171 pagine a fumetti a conti fatti non così solide né impattanti.

Fosse limitato a quelle centosettanta pagine, Civil War non sarebbe poi un granché. Poco più di un pitch appena sviluppato, con qualche buona idea e poca capacità di capitalizzare su quelle idee.

Tuttavia i numerosi personaggi dell’universo Marvel, molti dei quali titolari di una testata propria e talvolta di più d’una, abitano lo stesso universo condiviso e sono tutti toccati dallo scisma e dal concerto di mazzate che ne consegue.

Vale a dire, quindi, che Civil War non è limitato a quelle centosettanta pagine ma si espande andando a definire, per quei sette mesi, l’intero catalogo Marvel.

L’affresco totale di questa guerra civile era stato proposto all’epoca in 50 volumi, in un moltiplicarsi di linee narrative parallele e secanti che da un lato rispondo alle domande tipo “cosa starà facendo Spiderman in questo momento” e dall’altro allargano il piano del racconto ben oltre quanto si sarebbe potuto contenere in una narrazione unitaria.

Ne esce un’esperienza di lettura senza dubbio faticosa e costosa, ma nel complesso soddisfacente: mese dopo mese la storia fa un passetto in avanti lungo la dorsale della miniserie principale, ma il lettore è invitato a muoversi anche orizzontalmente e a ricostruire una simultaneità multifocale.

In questo senso ordinare disporre su un tavolo i tanti volumi che portano la tag “Civil War” in copertina, e che tutti assieme raccontano quella storia complessa e sfaccettata, ricorda un po’ l’atto di disporre i tarocchi su quello stesso tavolo, intersecando linee narrative attraverso le quali muoversi liberamente.

Civil War non è un racconto corale nel senso proprio del termine ma non è nemmeno un insieme di storie singole tenute assieme da uno stesso filo conduttore. È una zona grigia nel mezzo, in cui ogni tassello ha vita propria ma si incastra con tutti gli altri: quello che fa Reed Richards nella sua testata può non essere sempre fondamentale nell’intreccio centrale della guerra tra super, cionondimeno accade e avrà delle ripercussioni, fosse solo nella percezione che il lettore ha degli eventi.

È un modo di portare avanti l’ampia cronologia di un universo condiviso da più personaggi che Marvel – con efficacia notevolmente superiore alla concorrente DC – ha fatto del tutto suo per molti anni, riproponendolo con le dovute variazioni a cadenza periodica. Ed è un modo interessante che non può che vivere di un approccio produttivo e di conseguenza di fruizione seriale.

Più che un genere narrativo è quindi una modalità di racconto che presuppone e al contempo suggerisce una modalità di fruizione. E che proprio in quella modalità di fruizione, nel suo continuo invito a divagare e osservare cosa accade fuori dall’occhio di bue che illumina l’azione, trova la sua forza.

Se guardiamo alla Storia del fumetto tenendo conto delle peculiarità del linguaggio è facile notare quanto l’idea di leggere un libro alla volta sia recente, forse forzata al limite dell’artefatto. È possibile, ed è interessante farlo, leggere più fumetti tutti assieme, un pezzetto alla volta puntata dopo puntata.

Se queste singole puntate muovono all’unisono a costruire qualcosa di unitario, quell’esperienza non la si può ritrovare se ci si limita al bel cartonato da trecento pagine di cui tutti sembrano parlare. [Continua nella prossima puntata]

I Tarocchi di Marco Libardi sono stati realizzati appositamente per Tropico del Cancro