Una prima approssimazione.
Con Ferruccio Masini
Ubaldo Fadini

10.09.2022

Sia consentito partire da me. Per ricevere dei consigli sullo sviluppo del mio progetto di tesi di laurea su Walter Benjamin, decisi di contattare – erano gli anni '77 e '78 – uno studioso che aveva indubbiamente dimostrato di avere una straordinaria conoscenza dell'“oggetto”-“soggetto” del mio lavoro: Ferruccio Masini, noto germanista, tra l'altro, e anche filosofo di formazione. Mi recai allora da lui, che abitava fuori Firenze. Avevo già letto molto di Masini, lo avevo intravisto in una delle conferenze che seguivo per il piacere di avvertire il dipanarsi di un pensare intelligente accompagnato da particolare sensibilità.

Per dire dell'incontro, per restituirne l'impatto, mi torna utile appoggiarmi ad alcune riflessioni di Gilles Deleuze contenute nel suo ABeCedario (film-intervista a cura di Claire Parnet, uscito nel 1996, tradotto in italiano da Ilaria Bussoni, Filippo Del Lucchese, Giorgio Passerone per DeriveApprodi: le conversazioni di Deleuze con Parnet sono del 1988). Nello specifico, mi interessa la lettera F come Fidélité: fedeltà, lealtà ecc. ma che qui vale per “amicizia” (come nella traduzione italiana). Deleuze parla di quest'ultima come di una questione di percezione, nel senso di avvertire qualcosa/qualcuno/a che con-viene, che apre/insegna, che ri/vela una differenza. Non si tratta quindi dell'avere delle idee in comune, di collocarsi all'interno di una comunità delle idee.

C'è qualcosa di strano, d'indeterminato, un profondo senza fondo che balena nella relazione di amicizia. Continuando a parafrasare il filosofo francese, meglio: a “mimarlo” (che è una delle dinamiche di tale singolare relazione), con l'amicizia, come sua condizione di possibilità, entra in gioco un percepire delicato e affascinato, da restituirsi come segue: la “persona” che ho di fronte, la sento “mia”, non nell'ottica dell'appropriazione, e desidero essere “suo”.

L'esempio fornito da Deleuze, a mo' di chiarimento, è l'incontro con Michel Foucault, che gli permette pure di mettere fuori gioco lo stesso concetto di “persona”, abitualmente inteso: per lui, Foucault non era una “persona” (nessuno lo è definitivamente...), era come se con lui arrivasse un'aria diversa, era “atmosferico” nel senso che le cose mutavano, non erano mai le stesse, tutto appariva in movimento. Da qui anche l'attenzione alla gestualità, alla quale va riferito il fascino di una “persona”, di ciò che si disattiva paradossalmente nella proliferazione di gesti singolari, intensi, come quelli “secchi” dello stesso Foucault. D'altra parte, per il filosofo di Differenza e ripetizione, il fascino autentico di ciascuno di noi – se c'è... – si manifesta quando perdiamo un po' la testa e diventiamo anche minimamente “dementi”.

La “demenza” è la sorgente del fascino e rinvia all'importanza di essere un po' stupidi, alle potenzialità di tale condizione, nel momento in cui nell'incontro si viene sollecitati, strattonati, mobilitati differentemente dal solito, in un qualche modo. Con un pizzico di “demenza” si allentano la presa della “persona”, le posture irrigidite/codificate del corpo, le gergalità comunque dovute e altro ancora; certamente, alla base di questa strana riflessione c'è una linea di pensiero (o più linee) che Deleuze ha sempre seguito con attenzione e simpatia: Hume, Nietzsche, per indicare alcuni filosofi a lui particolarmente cari ma ancora altri (e ovviamente non solo filosofi) potrebbero essere aggiunti e d'altra parte mi sono spesso divertito – piuttosto che impegnato – a raccoglierne le tracce nei miei scritti.

Poi c'è anche quella risultante della dinamica dell'amicizia che consiste nel dirsi, nell'incontro: cosa ci fa ridere oggi, cosa spicca in alternativa prepotente alle tante piccole catastrofi (ma insomma!...) del nostro quotidiano? La risata così intesa è catastrofica per i poteri dati, per la loro pretesa di ordine. Detto forse meglio: è la spia che qualcosa per essi non va bene, può non andare nel verso “giusto”, a dimostrazione ancora una volta del rapporto stretto tra la risata e la “demenza”.

Bisognerebbe a questo punto riprendere in mano Terry Eagleton con la sua Breve storia della risata, ma qui mi interessa ritornare a Masini. E allora le parole di Deleuze le spendo anche per restituire il mio impatto con l'autore di Lo scriba del caos. Mi venne incontro, nel vialetto che portava alla sua abitazione, con un sorriso che attraversava uno sguardo incredibilmente aperto e quindi ospitale. Niente di più, a conferma pure che Masini non era una “persona”, era appunto “atmosferico” e da lui non poteva che provenire aria diversa, effettivamente differente da quella respirata negli ambiti ai quali avevo stentatamente appartenuto, soprattutto quelli istituzionali (in modo particolare l'università).

Sentivo, all'inizio un po' confusamente e poi in maniera sempre più netta, che ascoltarlo, parlare con lui, muovermi nei suoi spazi sempre “aperti”, permetteva veramente di pensare come concretamente possibile un agire nella libertà, anche un po' a caso: e il vivere, per riprendere il filosofo francese, non è altro che un insieme di casi, di situazioni che cambiano, sperando che evolvano. Restando sempre fedele al filosofo in questione, posso dire che l'incontro con Masini, la storia della nostra amicizia, mi ha consentito di capire e accettare senza ombre di colpevolizzazione/penalizzazione il mio essere costitutivamente “minoranza” e di fare di ciò un fattore di divenire sulla base della convinzione che quello che avviene non può pretendere di durare troppo (tale pretesa non è “giusta”).

Masini e il “mio” Benjamin. Gli portai, dopo qualche mese da quell'incontro, il volume della tesi, pasticciata come non mi è mai più accaduto scrivendo qualcosa. Dopo qualche giorno ci ritrovammo nella sala di Lettere per la discussione. Ero, come sempre, fuori luogo ma mi ero ormai esercitato a far fronte alle mie ricorrenti crisi di panico. A un certo punto, Masini prese la parola, tirando fuori da una tasca dei fogli. Era la sua relazione! La lesse lentamente ma con una bella teatralità complessiva di fondo. Talmente bella che avrei voluto interromperlo e abbracciarlo! Sviluppò il suo ragionamento, con le critiche dovute. Molto chiare e che qui voglio in parte riprendere.

Ci saranno – spero – altre occasione per riparlare insieme dell'amico e del suo grande regalo per me. Dopo alcune osservazioni sul “rompicapo Benjamin” (il teologo e il materialista), sulla “creatività dell'incognita”, di cui non riesco a ricostruire, a suo modo di vedere, l'asse semantico-dialettico su cui Benjamin imposta appunto tale creatività (non sono capace in definitiva, osserva Masini, di restituire in modo pienamente soddisfacente la costellazione materialistica di quest'ultima), ecco la questione principale, quella su cui non ho mai smesso di riflettere e lavorarci sopra: penso – mi chiedeva allora – che ci sia un rapporto, al livello metodologico proprio della mia tesi, tra il tema della Différence (Derrida, Foucault) e il negatives Denken messo in chiaro da Cacciari, nell'identificare la rinuncia a qualsiasi reductio ad unum (il movimento della differenza) come condizione d'accesso, per Benjamin, al materialismo-dialettico (non nel senso stereotipato della formulazione)? Insomma: Benjamin è paradossalmente anti-dialettico proprio nel momento in cui fa sua la dialettica materialista?

Avevo “vent'anni”, per dirla con Claudio Lolli: ne uscivo fuori con fatica... Le questioni poste da Masini erano complesse, volutamente tali per stimolarmi a temporalizzare appunto le complicazioni, a divenire – nel mio piccolo - “Fadini”, una sorta di strana “semiotica”, a cercare altre strade con quel “pluralismo degli approcci” (così ancora Masini) che mi veniva riconosciuto a sostegno di un vagabondare non avvilito e di una stravaganza malcelata. Dopo la seduta e il termine dei lavori, uscendo, Masini mi venne incontro: ero rimasto ad aspettarlo per salutarlo meno formalmente. Mi sorrise con complicità, quasi facendo banda e così ritornai semplice e disinvolto. Prima di andarsene, tirò fuori dalla tasca i suoi fogli e me li regalò. Li tengo con me, ancora, nella copia della tesi consegnata a lui e che contiene tutte le sue per me essenziali osservazioni e sottolineature.