Will Benedict al Centre d’Art Contemporain di Ginevra: “stranamente strano”
Carmen Lorenzetti
Will Benedict, Degrees of Disgust, 2019. Photo: Reto Schmid. Courtesy of the artist, Centre d’Art Contemporain Genève and Unemployed Magazine

11.12.2022

Visitare la mostra di Will Benedict (1978), artista statunitense di base a Parigi, da la sensazione di immergersi completamente nel mondo contemporaneo fatto di una mirabolante serie di immagini statiche e in movimento, dove tutto viaggia a una grande velocità, in un melting pot totale di situazioni, narrazioni, stimoli e sensazioni. Ci si ritrova pienamente in quel regime visivo proprio della nostra era, quella della videosfera, di cui scriveva Régis Debray in Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente (1992), in cui siamo ossessionati dalla velocità, dall’attualità e dall’innovazione tecnologica, laddove il codice di riferimento è quello mediale della pubblicità, ammiccante, ironica, accattivante. Il luogo per eccellenza della pubblicità è la televisione, dove si sviluppano le sue micro-narrazioni, da cui attinge a piene mani l’artista, che gioca con i format televisivi dell’intrattenimento globale. L’opera cardine della mostra è il video di Benedict diretto con Steffen Jørgensen, The Restaurant 2, 2021, che si articola in due format televisivi che ritornano come in un loop per un paio di volte: il ristorante che riproduce la tipica stanza di un interrogatorio poliziesco che sarebbe il ristorante dove si svolge un’intervista straniante tra una cameriera-carnefice e l’avventore-accusato; a cui segue la location di una strana fattoria-stazione radio dove due alieni intrattengono un dialogo con due animali sul cibo, le feci, il corpo umano e il metabolismo. Le ossessioni della nostra contemporaneità, risolte nel divertissement televisivo. La situazione, i dialoghi, i personaggi sono tutti “stranamente strani” (riprendo la definizione della nostra attuale realtà che ne da Timothy Morton in Ecologia oscura, 2021), tutto appare diverso da quello che è, anzi rovescia le aspettative e le consuetudini, spostando continuamente i piani di significato in uno slittamento paradossale. In mostra viene riproposta la spoglia, male illuminata e macabra location del ristorante: una stanza, il tavolo e la sedia e il vetro-specchio. In più sulla parete dietro alla sedia vi è appeso uno strano oggetto degli artisti ospiti Puppies Puppies: una sorta di zoccolo di cavallo da cui spunta una coda che si muove come se fosse un orologio da muro. L’atmosfera è sospesa, surreale, enigmatica e bizzarra -“weird” (e l’utilizzo sempre nel senso di Morton). Questa è la chiave di lettura dell’opera di Benedict: il familiare, il consueto, vengono sardonicamente ribaltati in un commento sarcastico e noir sulla nostra contemporaneità.

Will Benedict and Steffen Jørgensen,The Restaurant 2, 2021. Courtesy of the artists and Centre d’Art Contemporain Genève

Il rovesciamento viene dichiarato già dal titolo della mostra: Dialogue of the dogs, che riprende un racconto di Cervantes dove erano gli animali a parlare e a possedere la razionalità: un mondo alla rovescia, come il mondo al di là dello specchio di Alice. E quei cani con due filetti di pane sotto-zampa sono sia il manifesto della mostra, sia la decorazione delle tazze che si trovano sul tavolo con i microfoni dei due alieni in The restaurant 2, 2021. A ben vedere questo è solo uno dei motivi ricorrenti nella mostra, che viene costruita proprio sulla ripetizione di immagini (abbiamo visto già la stanza del ristorante) che sembrano fuoriuscire dal video e popolare le pareti del museo sotto forma di quadri, di stampe, di fotografie. E’ come se il racconto non si interrompesse mai e venisse richiamato e accostato ad un altro regime visuale, quello delle immagini statiche. A loro volta le immagini sono inquadrate da cornici e passe-partout accuratamente dipinti, spesso viene usato il dispositivo del quadro nel quadro, insomma il sistema della cornice viene ribadito con forza, quasi a trattenere ironicamente in quell’apparato l’immagine. Ironicamente perché l’immagine è già scappata dal video e si è rintanata nel “quadro”. Vi è un dispositivo su tutti che dichiara lo statuto circolante dell’immagine contemporanea: il vetro-specchio della stanza del ristorante. Il vetro-specchio evoca l’idea del passaggio e del rispecchiamento, l’immagine migra e d’altra parte intrattiene un rapporto simbiotico e perturbante con il reale. Fondamentale allora diventa l’idea di soglia tra animato e inanimato, tra - appunto - immagine e realtà in un percorso che ritroviamo spiegato dalle origini greco-romane alla contemporaneità nel libro di Andrea Pinotti, Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale (2021). Gli stessi personaggi ricorrono talvolta anche in video diversi, oltre che nei quadri, quindi vi è una trasmigrazione dinamica che implica anche una processualità temporale. Questa migrazione delle immagini può essere intesa come rete, una delle più potenti metafore della nostra contemporaneità, incentrata soprattutto sull’immagine foto-realistica di matrice fotografica. David Joselit è più volte tornato sul concetto di rete per spiegare la vita circolante delle immagini dopo la loro creazione e per interpretare il quadro all’interno appunto di una rete complessa e animata di relazioni. Mutatis mutandis, anche la mostra di Benedict può essere letta alla luce di questi studi. C’è poi un’immagine che ricorre in vari formati: quadro, stampa, polaroid, uno strano elefante dalle orecchie enormi come il Dumbo di Walt Disney. Mi ha stupito questo ripetersi di un’immagine tanto buffa quanto disturbante nella resa. Non è che per caso quei Dumb-o / stupidi siamo noi spettatori, noi umanità, che ci facciamo ammaliare dalla televisione, da desideri indotti, da una virtualità che ci allontana dalla realtà e dal suo disfacimento? Un disfacimento come quello dell’enorme immondezzaio che sono diventati mari e oceani che viene richiamato dal video ipnotico Apologize to the future, 2020 prodotto con l’attivista, ecologista e transgender Chris Korda e con musica dei Wolf Eyes: lattine di Coca Cola, bottiglie di plastica, cellulari, resti di cibo galleggiano nell’acqua mentre il viso di Korda pronuncia con voce metallica e monotona la frase “chiedere scusa al futuro”. L’atmosfera splatter, paradossale, ironica, noir allontana però l’opera di Will Benedict da moralismi facili ed inutili e proclama l’infinita libertà dell’arte di prendere seriamente in giro anche se stessa.